Qualche tempo fa un mio paziente, persona intelligente, colta e di successo, della quale parlerò brevemente in termini assolutamente impersonali per proteggerne la riservatezza, mi raccontava di alcune sue difficoltà nel gestire quelli che lui chiamava “gravi attacchi di panico”.
Mi servirò di quanto ho imparato da lui per accennare ad alcune considerazioni potenzialmente di un certo interesse per il lettore.
Partirei dal dato linguistico per cui si usa la parola panico spesso in maniera impropria o approssimativa. Il panico in quanto tale è un fenomeno osservativo riferito a comportamenti collettivi di tipo irrazionale e deriva il suo significato dalla mitologia greca: in quella cultura indicava il senso di smarrimento e terrore delle comunità davanti ai fenomeni della natura ricondotti alla manifestazione della presenza del dio Pan.
Nella nostra cultura più individualista, accanto ai fenomeni di gruppo o di massa, si presta una diversa attenzione al funzionamento delle singole persone e, a proposito di panico, si estende agli individui quello che in origine indicava un fenomeno collettivo con tinte e sfumature religiose.
Le nostre conoscenze sul funzionamento psichico umano ci permettono di differenziare le “manifestazioni di panico” in almeno due categorie: distinguiamo come paura quelle reazioni riconducibili a pericoli reali o realistici, e come ansia o angoscia quelle reazioni innescate da pericoli riconducibili alla nostra immaginazione consapevole o attivati da percorsi mentali preconsci o inconsapevoli. A questo mio paziente capitava dunque di sentirsi invaso da quelli che chiamava “attacchi di panico paralizzanti” quando si trovava a fare i conti con la frustrazione di alcune sue aspettative: nel momento in cui la realtà si mostrava diversa dalla sua immaginazione veniva sommerso da un grande sconforto. A tale disperazione cercava di far fronte controllando come poteva gli scatti d’ira conseguenti, per esempio rifugiandosi in garage, chiudendosi dentro la macchina e pestando violentemente i pugni sul volante urlando frasi sconnesse. Poi magari si lasciava andare ad imprecazioni per aver deformato maldestramente il volante stesso.
Gli era successo in diverse occasioni di essere preso da una furia incontrollata , occasioni nelle quali aveva distrutto oggetti di casa, infranto porte, sedie o quant’altro. Me ne parlava con evidente disagio per la vergogna e l'incomprensibilità di questo suo comportamento, di cui pure era consapevole. Per lui era pura distruttività: ai suoi occhi sembrava senza senso, e aveva l’unica evidenza di lasciarlo esausto, mortificato e a volte ferito anche fisicamente.
Questo paziente aveva chiesto una psicoterapia perché sentiva in quella fase della sua vita l'insopportabilità di tutto quanto gli stava capitando. Ne attribuiva la causa a un pesante senso di malessere fatto risalire a un diffuso senso di futilità e perdita di interessi.
C’è voluto del tempo prima di riuscire a dare a quei fatti un senso emotivo personale profondo, e riconoscere un significato in quel che gli accadeva.
Da un punto di vista intellettivo è parso chiaro fin da subito come il suo rivolgere la furia sugli oggetti aveva uno scopo preciso: vedeva con lucidità lo spostamento, la deviazione da un'alta parte, degli effetti del suo odio per le persone accusate di aver provocato la sua frustrazione. Va qui precisato che si trattava di persone nei cui confronti sapeva benissimo di essere affettivamente coinvolto. Di per sé dirigere lo scarico della sua frustrazione su altri oggetti inanimati potrebbe essere letto come un buon funzionamento, volto a proteggere o addirittura salvare, persone significative della sua vita.
Mi spiegava però di fare, allo scopo di trovare sollievo ai suoi sensi di colpa, ogni sforzo possibile per tenere sotto controllo il desiderio di somministrare a queste stesse persone una buona dose di risentimento. Le sentiva distanti e indecifrabili e avrebbe voluto far sentire loro il disprezzo e il marasma da lui stesso provato.
All'inizio del nostro lavoro dominava la perplessità per l’apparente improvviso emergere dell’odio inaudito provocato dal quel sentirsi rifiutato o non riconosciuto.
Questo fatto lo precipitava in una sorta di limbo emotivo, dove l’unica sensazione col permesso di raggiungere la sua consapevolezza sembrava essere quella “di non esistere”, di essere trasparente.
Il paziente di cui sto parlando è una persona, come dicevo, riflessiva e ben dotata di strumenti intellettuali. A mio parere è anche una persona di grande sensibilità, a volte anche eccessiva e tendente a sopraffare le sue pur notevoli capacità razionali: tale eccesso giunge a volte perfino a minacciare la stabilità del suo Io, la compattezza del suo senso do Sé.
Nel nostro percorso insieme, arrivò ad un certo punto inaspettatamente e con grande sorpresa, alla scoperta di un aspetto del suo furore distruttivo di cui non aveva mai messo a fuoco l'esistenza. Una scoperta accompagnata da un tonificante alleggerimento del suo animo greve e carico di sensi di colpa.
La sua rabbia aveva trasformato in mostri quelle persone, leggendo come cattiveria e perfidia il loro modo di funzionare nelle relazioni con lui, diverso da quello che lui avrebbe desiderato.
Quelli che per tanto tempo gli erano apparsi come gli obbiettivi esterni della sua rabbia, si rivelarono dunque, quasi per magia, per quello che erano: obbiettivi tutti interni alla sua mente, fabbricati dalla sua mente; sentiti come veri, ma ancora tutti da dimostrare nella realtà dei fatti. Perciò lo spostamento di quella furia sugli oggetti della sua vita quotidiana aveva finalmente un significato: il significato di una manovra diversiva rispetto all'angoscia evocata dall'invasione dei fantasmi persecutori nella sua mente. Meglio avere un nemico fuori che un assalitore interno: una formula non nuova, con la sua brava funzione rassicurante per la stabilità della mente!
Fu una acquisizione lenta e faticosa, una messa in discussione però inesorabile di un assetto mentale ritenuto formalmente inattaccabile, ancorché insoddisfacente.
Quando riconobbe nella furia quasi omicida di cui si vergognava, lo scopo di tenere a bada i “suoi” fantasmi di impotenza e annichilimento, si ritrovò disorientato. Nello stesso tempo, la comprensione dell’effetto ottenuto con questo escamotage, cioè di sentirsi in un qualche modo vivo, produsse una reazione di sollievo: forse adesso, con questa nuova consapevolezza, poteva pensare ad altri modi per “viversi e vivere”.
Non fu una cosa da poco riconoscere e ammettere il suo contributo determinante nella rappresentazione mentale di spaventose ritorsioni da parte di coloro che, almeno in fantasia, voleva ferire e distruggere.
I suoi mostri fantasiosi infatti, non potevano che sopravvivere alle sue altrettanto fantasiose rappresaglie, mantenendo intatto il loro potenziale aggressivo di ritorsione; essi risorgevano implacabilmente dalle ceneri e reagivano inesorabilmente ai suoi attacchi immaginifici e dimostrativi, dimostrandone così la totale inefficacia!
Scoprì in questo modo come la sua immaginazione lavorava silenziosamente e costantemente oltre a fabbricare mostri, anche per preservare sé stesso dalle paventate vendette (emotive e non) conseguenti ai suoi perfidi attacchi, ai suoi violenti desideri distruttivi verso coloro che in realtà erano poi le persone più importanti per lui.
In precedenza era stato per lungo tempo veramente terrorizzato dalla possibilità, non sapeva quanto remota o attuale, di mettere in pratica i suoi devastanti progetti. Senza peraltro riuscire a capacitarsi della inspiegabile contraddittorietà del suo sentire: perché proprio le persone più significative per lui erano oggetto di tanta rabbia? Perché proprio dalle persone da cui riconosceva di aver ricevuto tanto, avrebbe dovuto temere di ricevere anche le ritorsioni più spaventose? Cosa c'era nella realtà di così insopportabile da costringerlo a rifugiasi nelle sue fantasie?
Il suo corto circuito mentale può essere descritto qui spero in un modo non eccessivamente semplificato: si sentiva messo di fronte al dilemma di una scelta di vita, vissuta come tragica e senza alcuna possibilità di ritorno!
Questa scelta consisteva su un versante nell’accettare il rischio di uno scivolamento nella passività pur di non sentirsi pericoloso, e sull’altro nel rinunciare ad ogni speranza di potersi liberare da fantasmi di dipendenza angosciosi e soffocanti.
In altre parole: si trattava di continuare a sentirsi intrappolati in una sorta di attesa ansiosa e ansiogena di riconoscimenti gratificanti per il proprio Sé da parte di quelle persone, o sentirsi privato di una prospettiva di senso e significato per la sua vita, con la rottura del legame con loro.
In questa continua oscillazione fra sentimenti di inautenticità e speranza si era perso.
Questi forti ondeggiamenti emotivi cui si sentiva esposto, facevano vacillare la percezione di sé e minacciavano la stabilità, la coesione del suo io: la perdita del confine fra l’immaginazione e la realtà facilitava l’alimentazione delle fantasie consce e inconsce di scenari apocalittici, nei quali la tragica perdita del contatto con la realtà lo costringeva ad affrontare ansie striscianti e angosce smisurate. Vediamo qui in questo paziente e forse anche in tanti altri, come a volte il prevalere delle fantasie sulla realtà, quando sono cariche di troppe paure, impediscono una adeguata decodificazione della realtà stessa.
Nella creazione di questi scenari si può anche scorgere in questo paziente specifico, il ruolo non certo secondario della sua parte desiderante: in lui era così forte il desiderio di far coincidere la realtà con le sue aspettative, da fargli perdere di vista un suo piccolo grande problema: la sua scarsa capacità di tollerare la frustrazione. Si realizzava così una pericolosa miscela esplosiva capace di produrre quel doloroso cortocircuito delle emozioni e dei sentimenti visto sopra.
Siamo arrivati al punto in cui fare quelle considerazioni cui accennavamo, spendendo una parola su quella che potremmo chiamare ambivalenza dei sentimenti.
I sentimenti sono vita, vita emotiva, sono il nostro “sentire”. Ci identifichiamo nel nostro modo di sentire! Abbiamo quel modo di sentire emotivo e pensiamo di non averne un altro. Tendiamo a sentire i nostri sentimenti come positivi o negativi e li percepiamo senza ambivalenze. Eppure essi sono naturalmente vivi.
Se abbiamo un sentimento positivo verso qualcuno, l’apparizione di qualsiasi ombra negativa su di lui, piccola o grande, la viviamo come una dissonanza, una stonatura: quest’ombra tenderà ad apparire come una minaccia al nostro bisogno di coerenza e ci costringerà ad una revisione della nostra posizione emotiva verso quella persona. Potrà capitare di cercare altre conferme della nostra precedente impressione positiva, o in caso contrario, prenderemo in considerazione un cambiamento radicale del nostro abituale atteggiamento.
Qualcosa del genere ci accade anche quando abbiamo sentimenti negativi, per esempio verso il nostro burbero vicino di casa: se riusciamo a cogliere in lui una sfumatura positiva, ci pensiamo su e forse arriviamo a mettere a fuoco che non è quel “cretino” che pensavamo.
La nostra coscienza non maneggia facilmente la contraddizione degli affetti, dei sentimenti; non la tollera.
Del resto, cosa succede quando osserviamo negli altri un comportamento ai nostri occhi contraddittorio, problematico o incomprensibile? Quando va bene facciamo spallucce e un sorrisino, magari pensando “Roba da matti!”. E quando va male cominciamo a rimuginare, ci preoccupiamo o addirittura ci spaventiamo.
Dentro di noi la contraddizione, quando viene sentita come tensione, cerca uno scarico, uno sbocco univoco, una possibile certezza rassicurante, nel bene o nel male.
Questa ricerca di coerenza è indispensabile per la nostra ragione. La ragione deve mettere ordine nel caos, deve risolvere le contraddizioni.
Nel campo dei vissuti emotivi, spesso carichi di sentimenti, affetti, emozioni, le cose sono di natura difficili: caos e contraddizioni sono all’ordine del giorno e tendono a provocare disagio se non addirittura dolore. Per non sentirci sopraffatti dalla tensione e tentare di governarli, facciamo appello alla nostra ragione.
I vissuti emotivi però sono vivi, sono vita vera e sono sempre in movimento, non si lasciano facilmente solidificare in un’unica dimensione. Qualche volta sono incongrui se non incoerenti, e sempre sono sfuggenti. Talvolta condizionati in maniera ineffabile da qualcosa che accade fuori di noi, davanti a noi; talvolta da ciò che accade preconsciamente o inconsapevolmente dentro di noi.
Mossi da queste considerazioni, raffinati osservatori del comportamento umano sono arrivati ad esclamare: “Solo se si odia veramente allora si può amare veramente” (per esempio D. Winnicott e D. Lopez in alcuni loro memorabili aforismi).
E noi possiamo chiosare: “Solo se ci si sente veramente odiati riusciamo a sentirci anche veramente amati”.
Forse perché solo allora sentiamo di esistere veramente, come ci dice il nostro paziente: solo così possiamo veramente dar corpo al desiderio di una relazione significativa con noi stessi e con gli altri.
L’assenza di vita emozionale, la mortificazione o addirittura la morte della vita emotiva, cioè il deserto dei sentimenti, pone non pochi problemi agli esseri umani.
Riprendiamo per un attimo il nostro paziente: per lui tornare di nuovo a sentirsi invaso da sentimenti pur contraddittori e violenti è stato un po’ come riemergere da quell’area di apatia, inautenticità e insignificanza che lo tormentava, scolpita e pietrificata proprio dall’assenza di emozioni e sentimenti.
C’è qualcosa che questo paziente vuole farci capire nel suo sforzo di riappropriarsi del suo malessere? Qualcosa che possa attirare il nostro interesse sui fatti della vita psichica emotiva, qualcosa che potrebbe riguardare anche noi in un qualche modo?
Mi permetto una sintesi: la vera opposizione non è tra l’amore e l’odio così come appare nel senso comune, ma tra la presenza e l’assenza di emozioni, tra la vita e la morte emotiva. Quest’ultima può essere la vera ragione del panico: la perdita di contatto coi sentimenti e gli affetti, con la vita vissuta.
Questa perdita di punti di riferimento, di ancoraggio alla realtà, spinge molti individui a cercare scariche di adrenalina sfidando la sorte e il pericolo pur di sentirsi vivi, o a costringere l’ambiente in cui vivono a spaventarsi per i loro comportamenti estremi o a rischio: sono i loro messaggi in bottiglia, le loro richieste d’aiuto nel mare senza orizzonti della perdita di una vita emotiva o affettiva. Un modo per arrivare a “sentire” e afferrare finalmente alla gola quel malessere non riconosciuto al lavoro sottotraccia e che li divora: il nichilismo.
Tradotta in soldoni: “Meglio sentirsi male, sentire il male, che non sentirsi affatto”.
Ciò è particolarmente vero in adolescenza e a volte produce esiti drammatici. Anche successivamente però non è raro il riscontro in tante persone di malesseri profondi e non risolti chiamati crisi di panico. Sappiamo si tratta in realtà di angosce esistenziali: un segnale di immenso valore dove l’attenzione è centrata sulla imperscrutabilità di quei vissuti profondi e ci interroga sul senso della nostra vita emotiva, affettiva e relazionale.
Un pensiero a margine riguarda lo scenario di un mondo fatto soltanto di buoni sentimenti: non ci resta che guardarlo con un sorriso per quanto sia inautentico, inverosimile, impossibile. La rabbia, la distruttività esistono. Il Male esiste. E fa danni quando non è contenuto in maniera adeguata nei confini della nostra mente, il solo posto dove può essere guardato direttamente in faccia.
Potrebbe essere buona cosa se nel mondo continuassero a fermentare e lievitare i sentimenti, tutti i sentimenti, anche quelli contraddittori e spiazzanti, piuttosto che un mondo senza passioni, senz’anima, beata o dannata che sia.
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