DISTURBO DA ATTACCHI DI PANICO
La scelta di scrivere questo articolo nasce dall’aumentata richiesta di aiuto per l’esordio di un disturbo da attacchi di panico. Posso affermare che attualmente il disturbo da attacchi di panico rappresenta il disturbo psichico più diffuso.
COSA ACCADE
Cosa succede nel disturbo da attacchi di panico? Accade spesso che un evento del tutto casuale, molto spesso fisiologico (come ad esempio un calo di pressione), ma non necessariamente, provochi malessere. A quel malessere, che magari la persona non conosce, non ha mai provato (ad esempio non ha mai avuto un calo di pressione e non ne conosce i sintomi), attribuisce un significato diverso, ossia lo associa ad altre cose (ad esempio: “mi sento male perché sto in macchina!”). Tutto questo crea uno stato di ALLARME.
Possiamo quindi definire l’attacco di panico come la “costruzione, in termini di attribuzione percettiva, che si fa intorno a una percezione”. Quello che accade è che la persona percepisce come pericolosa la situazione in cui era, anziché percepire di avere avuto un calo di pressione (o altro), reagisce all’idea che questa situazione gli ha creato questa reazione (i sintomi ad esempio legati al calo di pressione). Da lì si attiva una catena di percezioni di pericoli.
La paura che l’esperienza terrificante appena vissuta si ripeta, induce la persona ad evitare e controllare ciò che teme possa scatenarla. Da qui in poi iniziano a scatenarsi reazioni a catena di controlli ed evitamenti, perché si comincia a vivere nella paura che possa tornare la grande paura, quindi paura della paura.
In alcuni pazienti accade, infatti, di sperimentare una sola volta nella sua vita l’attacco di panico. Però da quella prima esperienza, si è attivato un nuovo modello di percezione della realtà, il cosiddetto sistema percettivo-reattivo. Si tratta dell’insieme di modalità con cui ognuno di noi percepisce la realtà, le attribuisce un significato e reagisce ad essa. Il nostro sistema percettivo reattivo inquadra un evento interpretandolo in un senso o nell’altro, in base ai propri criteri logici, emotivi, motivazionali, valoriali, e basandosi su questa interpretazione reagisce.
Le strategie messe in atto per evitare che possa succedere ancora, altro non fanno che confermare al cervello che un pericolo esiste davvero! E qui il circolo si chiude e diventa vizioso: sono io che do al mio cervello il segnale che c’è un pericolo, anche se un pericolo effettivo non c’è. Quindi le soluzioni che la persona mette in atto per risolvere il problema sono ciò che mantiene il problema.
È stato visto che le tentate soluzioni, ossia i modelli di comportamento messi in atto per tentare di risolvere il problema, sono tre. A volte possono essere presenti tutte, altre volte anche una sola delle tre. Si tratta di modelli di comportamento che evidenziano un sistema percettivo-reattivo connesso al panico e sono: controllo ed evitamento delle situazioni temute, e richiesta di aiuto.
Una vita orientata al controllo, all’evitamento e alla richiesta di aiuto, è una vita completamente deviata dalla patologia, che rischia di compromettere il funzionamento in altre sfere, quali il lavoro, la vita familiare e sociale, quindi è importante agire quanto prima.
TERAPIA
La terapia, tenendo conto degli studi delle neuroscienze sul funzionamento del cervello, sarà orientata a ristrutturare la realtà di secondo ordine, ossia l’idea che quelle situazioni siano pericolose, attraverso esperienze emozionali correttive. Il paziente sarà aiutato a “sentire” l’irrazionalità delle proprie reazioni emotive, producendo un’esperienza capace di correggere le emozioni patogene della persona, ossia il suo sistema disfunzionale di percezione e reazione, cambiandolo con uno più funzionale. Il paziente esperirà che certe situazioni non sono pericolose, più che comprenderlo, poiché si può essere anche convinti razionalmente che non ci sia nessun pericolo reale, ma il cervello si allerterà ugualmente, dando inizio ai sintomi che il paziente conosce bene; se invece lo ha esperito, quel sistema di allarme si è già in parte disattivato.
Il lavoro successivo avrà poi lo scopo di rompere uno schema di comportamento che si è strutturato per questioni di sopravvivenza (percepisco il pericolo e reagisco proteggendomi da quel pericolo), quindi molto potente. Siamo in una fase ancora ad effetto elastico, in cui la persona è pronta emotivamente, è pronta cognitivamente, ma c’è una tendenza del cervello a ripetere uno schema acquisito. Quindi la persona dovrà in qualche modo allenarsi a rendere spontaneo questo nuovo sistema di percezione e reazione, funzionale e non più disfunzionale. Tutto questo avrà come effetto il ripristino automatico delle sfere di vita (relazionali, affettive, lavorative, …) in precedenza compromesse.
CONSIDERAZIONI FINALI
La domanda che frequentemente il paziente pone è come sia possibile che una crisi così forte e debilitante, con manifestazioni neurovegetative importanti, possa avere un’origine psicologica. Spesso, infatti, la crisi di panico si presenta alla persona senza evidenti contenuti psicologici. Questo accade perché mente e corpo sono un tutt’uno, mai separati: la mente è una funzione del corpo e come tale ne influenza le attività- non esiste psicologia che non sia fisiologia e viceversa.
Chi soffre di attacchi di panico non è “pazzo”, anche se può avere a sensazione di impazzire.
La persona che abbia avuto uno o più attacchi di panico riconosce sempre e soffre dei propri sintomi ed è da tale riconoscimento che può nascere una richiesta di aiuto.
Molti credono che chiedere aiuto rappresenti una sorta di sconfitta poiché si ritiene che sia necessario farcela da soli. In realtà è esattamente l’opposto: significa essere consapevoli che esistono metodi di cura e, quindi, semplicemente usufruirne.
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