(Qualsiasi fatto raccontato in questo scritto E' realmente accaduto e NON E' frutto della mia fantasia)
Permettetemi alcune premesse necessarie:
il caldo dell'estate sta delicatamente lasciando spazio alle prime frescure e piogge dell'autunno, ormai prossimo all'arrivo.
È già mattina, e ti ritrovi in un divano di una stanza che conosci da anni, ma che non è tuo, perché sei "parcheggiato" per qualche giorno nella casa di quelli che dovrebbero essere i futuri suoceri.
Non hai ancora 30 anni, sei fidanzato da circa un terzo del tempo e dai per scontato che prima dell'età in cui Gesù Cristo ci lasciò ti sarai sposato e forse con un pupo da coccolare.
L'Università ti sta dando qualche problema: sei prossimo alla Laurea, ma i mesi che ti separano prima del Natale sono portatori di impegno e di tanto studio. Fortuna che hai un lavoro che ti permette di gestire in autonomia esami, spese e fidanzata.
Dimenticavo: casa tua non è dietro l'angolo. Per arrivarci devi passare non meno di due ore seduto sulla macchina.
Le prime luci dell'alba ti salutano puntando dritte negli occhi ancora chiusi, tra cinciallegre e merli che le salutano allegramente appollaiate tra i balconi ed i condomini di una cittadina emiliana a ridosso degli Appennini.
Ti svegli.
Ma non grazie a quell'atmosfera idilliaca appena descritta.
Ansimi.
Lì per lì non ti sorprendi: sei asmatico, del resto (così dicono i dottori. Ma di un'asma strana, che va quando vuole lei e non reattiva a sostanze particolari. Nel senso: se ti mettono sotto il naso un odore particolare non ti viene, come spiegare...).
E anche allergico. Alle graminacee. Ma al terzo piano di quell'abitazione in pieno centro urbano e a fine agosto, di gramigna manco l'ombra.
Però inizi ad ansimare. Prima un respiro dimezzato. Poi un altro, dopo qualche secondo di respirazione normale. Poi un altro ancora, fino a quando devi alzarti e metterti con la schiena dritta.
Associ questa sensazione ad altre, accadute mesi addietro.
I ricordi però sono nebulosi, confusi, quasi spettrali: ti viene in mente che eri al mare con gli amici, a casa tua appena traslocato, la mattinata gelida e tu in attesa di prendere l'autobus per andare a scuola...
Gli occhi ora sono spalancati, come la bocca.
Il cuore scalpita all'impazzata, quasi ti chiedesse di uscire dal torace. Ma non puoi, deve stare lì e deve rallentare perché sennò potrebbe venirti anche un infarto. Credi.
La pelle inizia a sudare.
Non ne capisci il motivo, perché non fa caldo. Hai una coperta di cotone, un sacco a pelo per necessità accanto. La temperatura nella stanza è l'ideale per dormire, per studiare e anche sì, per fare all'amore.
Ma... Ma hai la schiena che gronda acqua. Le braccia viscide, il petto anche.
Un minuto prima eri in un bel sogno tra vette alpine e profumi di gelsomino e ora sei qui, in preda a pensieri di morte e di pazzia.
Prima eri nel mondo onirico, quello delle immagini di Fellini, della bellezza surreale, ora sei nella cruda realtà, di quella che puoi sentire con le mani ora tremanti, e quei brividi che ti scuotono le membra da dentro, Santo Cielo!
Cerchi di tranquillizzarti e ti accarezzi le spalle. "Passa" - ti dici. Ma no, non passa. Anzi, peggiora.
Sai per esperienza che di lì a poco gli otto metri delle viscere avrebbero cominciato a farsi sentire.
E non sbagli.
PUM! Ecco la prima colica, il primo spasmo alla tua sinistra nell'addome. "Mamma che male!"
PUM! E la seconda. "Tranquillo, passa!"
PUM PUM PUM! "Ma che passa e passa. Peggiora!" PUM
"Devo precipitarmi in bagno" - "Ma che ore sono? Le 6.00. Ora si sveglia mio suocero. Aspetto" - "No. Non posso. Aspetterà lui" - "Porco cane, è entrato. Tieni, cavolo, tieni" - "Quanto ci mette? Son passati due minuti, credo..." - "Non ce la faccio. Adesso esco e vado a bussare. No, fermo, sta uscendo. Buongiorno, scusi, sa, ho preso freddo, finestra aperta. Buona giornata"
Finalmente ti liberi e stai un po' meglio. Torni sul divano. Ancora ansimante, ma sta passando.
Speri.
E con la speranza ti riaddormenti, esausto.
No dai, addormentare è una parola grossa, esagerata.
Mezz'ora dopo ti risvegli che la pancia sta ancora reclamando. Il respiro si sta normalizzando, e hai addosso biancheria pulita, fresca e non bagnata.
Fortuna che ora sei a casa solo con la tua compagna: genitori e sorelle sono già chi a scuola chi al lavoro. Cosa potrebbe andare ancora storto?
Lei, che ti dice che nella vita non hai fatto nulla e non ti puoi presentare davanti a suo padre con gli occhi iniettati di sangue e con le occhiaie che arrivano alla bocca. E che ti devi sbrigare a sistemare il salotto, che deve mettersi a studiare e tu tornare a casa TUA.
***
Ho impiegato anni per capire che la fame d'aria e il mal di pancia erano correlati e facevano parte entrambi di una stessa sindrome, vale a dire una forma particolare di attacco di panico. Questo insorge in momenti ben precisi, ma quando succede fai fatica ad andare alle radici della sua comparsa, perché troppo impegnati ad ascoltare le sensazioni non piacevoli che accadono.
Non si muore di attacco di panico, non mi stancherò mai di ripeterlo.
Non și perde per sempre il lume della ragione.
Si torna ad essere come quelli di prima.
L'attacco di panico ci dice che stiamo andando oltre i nostri limiti e potenzialità. L'attacco ci dà una "scossa", per dire alle "sfere alte del pensiero" - cioè la corteccia cerebrale, sede dei pensieri complessi che regolano la nostra vita - che stiamo conducendo una vita che alla lunga ci sottrae piacere e riduce sulla nostra permanenza qui. Ci dice dobbiamo fare qualcosa, reagire, cambiare rotta. Trovare una soluzione agli affanni che tante, troppe volte, abbiamo procrastinato.
Nel caso specifico che vi ho raccontato, gli elementi che hanno consentito lo scatenarsi di quell'episodio (...sì, ho vissuto in prima persona quanto scritto) sono...
Provate a capirli da soli. Vi dò qualche minuto. Rileggete la parte iniziale e poi date libero sfogo alle interpretazioni.
***
Fatto? Vediamo se avete colto nel segno.
- non ero a casa mia, e non dormivo su un letto, ma su un divano (sì, proprio così, un divano. Ma non di quelli che si trasformano in letti, ma un divano dove erano stati tolti i cuscini dietro alle spalle, lungo poco più di un metro e sessanta. E io sono alto un metro e settanta).
- Avevo quasi 30 anni, età che rappresenta un momento dove fare un bilancio della propria vita. Di solito a quell'età ci si sposa oppure si fa un figlio. Non avevo niente di tutto questo e le prospettive che avevo non mi facevano presagire nulla di buono: non mi sarei sposato né mi sarei creato una classica famiglia con pupi a seguito.
- Università ancora da concludere, quindi ancora in parte dipendente dalla famiglia. Famiglia che non avevi lì vicino, ma distava parecchio da quella casa.
- A fronte di queste preoccupazioni c'era quella aggiuntiva che mi trovavo in uno spazio "foresto", in un diverso nucleo familiare, che aveva i suoi ritmi e abitudini. Occupavo poi uno spazio vitale, il salotto, e sapevo che stavo dando fastidio, anche se, per quieto vivere, quelle persone non me lo facevano pesare.
Fino a quando non arrivai a cambiare abitudini.
E tra queste ci fu quella di lasciare quella compagna, e con essa la sua famiglia, la sua casa. Il posto letto dove dormivo.
Accellerai gli studi, dimezzando i tempi nel dare gli esami e arrivando così alla sospirata laurea.
Mi costò fatica e dolore. Ma quegli attacchi si ridussero considerevolmente.
Con questo non voglio dire che sono passati per sempre. Ma è cambiato il modo di affrontarli. Quei momenti mi servirono per avere più consapevolezza di me stesso, permettendomi di fermarmi per tempo quando mi caricavo troppo di situazioni e relazioni che mi urtavano o mi facevano stare male.
L'attacco di panico non va combattuto.
Va ascoltato. Perché ascoltare quei momenti significa ascoltare noi stessi. Significa andare incontro alle nostre lamentele interne, alle inquietudini che vorremmo esprimere ma non possiamo farlo all'esterno.
Parliamoci. Parliamo con noi stessi. Parlare vuol dire "portare alla coscienza", vuol dire dare concretezza alle emozioni, alle pulsioni, e delineare un volto, una situazione. Solo allora possiamo trovare la soluzione.
Lo diceva Freud il secolo scorso: togliere terreno all'inconscio per renderlo conscio. Non stiamo facendo nulla di esoterico o di innaturale.
Lo fanno i medici: se avverto un dolore, guardano, vogliono vedere e toccare ciò che ci fa soffrire. E allora intervengono.
A conclusione di questo articolo mi viene da dirti, caro lettore o cara lettrice, che se dovessi trovarti in un momento dove ti sembra di impazzire, il cuore che va a 1000, la respirazione corta, la bocca secca, che ti senti inondata di sudori freddi, e che avverti la morte dietro l'angolo... sospira. Sospira e bevi un sorso d'acqua. Mettiti le mani sulla pancia e sentila gonfiarsi mentre respiri dal naso.
Inizia a ripeterti che nel giro di pochi minuti sarà tutto finito e tornerai alla vita di tutti i giorni.
Ma con una differenza: fatti una promessa, che da quel momento ti metterai d'impegno per cambiare qualcosa nella tua vita. Con i tempi che tu stabilirai. Che i cambiamenti più grandi iniziano con i passi piccoli.
Prova. E se non ce la fai, chiedi. Domanda. Isolarsi non fa bene. Non avere paura di mostrarti fragile. Lo siamo tutti.
Se non si è disposti a cambiare la vita, sarà essa che comunque ci cambierà. Meglio accettarsi e provare a fare qualcosa, dunque.
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