Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania cercava nuovi carburanti per i razzi e sviluppò l’idrazina, un composto tossico e cancerogeno. Dopo la guerra, nel 1951, i chimici della Hoffmann-La Roche iniziarono a sperimentare l’uso dell’idrazina e riuscirono a sintetizzare due composti: isoniazide e iproniazide. Questi farmaci si dimostrarono particolarmente efficaci contro la tubercolosi, malattia diffusa all’epoca, e furono subito adottati negli ospedali. Tuttavia, accanto agli effetti benefici, emersero diversi effetti collaterali, tra cui la tossicità epatica e un'evidente "energizzazione" dei pazienti. Questo fenomeno fece pensare che tali farmaci potessero avere effetti sul sistema nervoso centrale e aprire nuove strade per il trattamento della depressione.
Fu così che nacque l’idea che la depressione fosse causata da uno squilibrio chimico nel cervello, in particolare da una carenza di serotonina. Questo modello, che può essere paragonato al modo in cui l'insulina viene somministrata ai pazienti diabetici per compensare la loro carenza, portò all'introduzione di antidepressivi come gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). Questi farmaci promettevano di correggere lo squilibrio chimico aumentando i livelli di serotonina. Tuttavia, con il tempo, divenne evidente che questa spiegazione era imprecisa e più una strategia di marketing che una verità scientifica.
Infatti, oggi la maggior parte degli psichiatri riconosce che la teoria dello squilibrio chimico è superata. Nonostante ciò, gli antidepressivi continuano a essere prescritti sulla base di un modello centrato sul farmaco, e non sulla malattia. La Dottoressa Joanna Moncrieff ha definito questa visione come "modello centrato sul farmaco": i farmaci psichiatrici, come l'alcol, non curano le cause sottostanti dei problemi mentali, ma agiscono direttamente sulle funzioni cerebrali, modificando il modo in cui ci sentiamo.
Un esempio che chiarisce questa differenza è l’uso dell’alcol. Quando una persona beve, si sente meno ansiosa e più rilassata, ma nessuno direbbe che l'alcol cura l'ansia sociale o che essa è causata da una carenza di alcol. Allo stesso modo, gli antidepressivi non curano la depressione; semplicemente intorpidiscono le emozioni. Diversi studi mostrano che tra il 50% e il 70% delle persone che assumono antidepressivi si sente "intorpidito" emotivamente, e questo effetto è stato osservato anche in volontari sani, senza depressione. Questo intorpidimento emotivo non colpisce solo le emozioni negative, ma anche quelle positive, riducendo la capacità di provare piacere o gioia.
Oltre alla questione dell'intorpidimento emotivo, c'è il problema dell'efficacia degli antidepressivi. Numerosi studi clinici non hanno trovato una differenza significativa tra l'effetto degli antidepressivi e quello dei placebo, dimostrando che una parte importante del miglioramento osservato nei pazienti può essere attribuita alla naturale tendenza della depressione a migliorare nel tempo. Gli antidepressivi, però, mostrano una leggera superiorità rispetto ai placebo grazie ai loro effetti psicotropi, che fanno percepire ai pazienti un cambiamento. Questo rende più facile per loro intuire se stanno assumendo il farmaco reale o una pillola di zucchero.
La depressione, in realtà, non è una malattia biologica e non esiste alcun marcatore biologico che dimostri uno squilibrio chimico nel cervello delle persone depresse. La depressione è una risposta normale agli eventi difficili della vita, e la maggior parte delle forme di depressione tende a risolversi spontaneamente. Molti psichiatri nel passato hanno sottolineato questa tendenza, osservando che le depressioni migliorano anche senza trattamenti.
Un altro aspetto preoccupante riguarda gli effetti a lungo termine degli antidepressivi sul cervello. Bruce Hyman, nel 1996, ha scoperto che gli psicofarmaci causano una "perturbazione delle funzioni dei neurotrasmettitori", cioè creano il tanto discusso squilibrio chimico che inizialmente non era presente nel paziente. Questo porta a una condizione di iatrogenesi, ovvero all'insorgenza di effetti negativi causati dal trattamento stesso, come la sindrome da post-SSRI. Questa sindrome include una serie di problemi sessuali persistenti anche dopo la sospensione del farmaco, come ridotta sensibilità genitale, assenza di desiderio sessuale e difficoltà a raggiungere l'orgasmo.
In conclusione, sebbene gli antidepressivi siano stati promossi per anni come una cura basata sulla correzione di uno squilibrio chimico, le prove scientifiche indicano che non è così. Essi funzionano alterando le funzioni cerebrali in modo non specifico, causando intorpidimento emotivo e altri effetti collaterali, senza affrontare le cause profonde della depressione. Pertanto, l'uso di questi farmaci, soprattutto per trattare una condizione complessa come la depressione, solleva seri dubbi etici e richiede una revisione critica.
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