In passato, si pensava che la depressione nel bambino fosse uno sporadico o, addirittura, inesistente fenomeno; oggi si sono accumulate evidenze a proposito della verità opposta: anche la fanciullezza, purtroppo, non è esente dalla contrazione di questa patologia (Milgrom, 2004; Ruberti, 2005; Cristini, 2007).
<<In mancanza di esperienze che modifichino la percezione di sé, l’itinerario che si va delineando porta nella fanciullezza a un equilibrio in cui il tipo di comportamento interpersonale considerato come più presentabile e meno rischioso per la salvaguardia delle relazioni è non fare richieste e dimostrare le abilità valorizzate dalle figure di attaccamento. Le proprie capacità socialmente più apprezzate (di apprendimento, sportive, di supporto degli altri ecc.) vengono pertanto coltivate e utilizzate come canale privilegiato per entrare in rapporto con gli altri>> (Ruberti, 2005, pag.43).
Le abilità cognitive nascenti in questa fase della vita esercitano due funzioni:
- Contribuire alla regolazione degli stati emotivi con l’attribuzione di un valore marginale ai propri bisogni di cura che, se considerati non importanti, rendono più sopportabile il fatto che vengano trascurati dagli Altri significativi
- Essere usate, se valorizzate nel contesto familiare, per lo sviluppo delle abilità scolastiche e per l’inizio di un iter personale basato sul riconoscimento della propria bravura; ecco che, quindi, un insuccesso scolastico e/o sociale può avere conseguenze assolutamente negative sul senso di sé, giacché mina il nucleo stesso della possibilità di essere accettati, e facilita la nascita, in situazioni pubbliche, di sentimenti quali una pervasiva vergogna (Ruberti, 2005).
Questi elementi, uniti alla certezza di non ricevere conforto di fronte al fallimento, possono far sorgere due meccanismi difensivi di segno opposto, ma necessariamente implicanti una compromissione del senso di autenticità personale nelle relazioni:
- Evitamento di qualsivoglia interazione competitiva
- Accettazione di ogni competizione con uno spirito eccessivamente aggressivo (Ruberti, 2005).
La solitudine in cui il bambino cresce e l’impossibilità di chiedere tranquillamente soccorso rendono ragione di quell’atteggiamento noto come “autosufficienza compulsiva”, consistente nella persuasione di poter contare solo sulle proprie capacità per affrontare gli ostacoli che la vita impone già a partire dall’infanzia; lo sforzo e il solitario sacrificio per il raggiungimento di scopi personali divengono, quindi, le uniche categorie influenzanti la percezione di sé e degli eventi della vita (Ruberti, 2005).
A tutto ciò va aggiunto che, se la dimensione dell’aiuto non viene sufficientemente conosciuta nei termini di attenzione ricevuta, essa può essere sperimentata fornendo cure agli altri, fino a mostrare frequenti atteggiamenti oblativi o di vero e proprio accudimento compulsivo; il riconoscimento sociale ottenuto quando si assume questo ruolo può diventare una delle rare forme sperimentate di autoaccettazione e può rinvigorire la costruzione di una parte della propria identità su comportamenti e modelli di sacrificio personale a favore degli altri; questo meccanismo assume particolare forza quando a chiedere aiuto è il genitore che si trova di fronte a una grave sofferenza e/o a uno stato di profonda solitudine: in questi casi si osserva un’inversione del rapporto d’attaccamento per la quale il bambino, stimato unicamente per il sollievo che dona, nella relazione col caregiver arriva a rivestire il ruolo di figura accudente (Ruberti, 2005).
Analizzando ancora il problema dell’indifferenza da parte degli Altri significativi, possiamo dire che questo può far sorgere nel bambino l’idea di essere rifiutato per proprie colpe e indegnità (assunzione di responsabilità sulla propria persona) oppure l’idea della cattiveria insista nel mondo circostante (percezione negativa dell’altro); in sintesi, quindi, la lettura degli eventi relazionali può essere connotata da una polarizzazione interna
La fluttuazione, spesso brutale e fulminea, da sentimenti di tristezza a quelli di rabbia segna immancabilmente il “cammino” dei bambini affetti da depressione (Ruberti, 2005).