In Italia ogni 16 ore una persona si toglie la vita. Un’altra persona prova a farlo ogni 14 ore. Tragico il dato, anche se si guarda solo ai giovanissimi, tra i quali si verifica un caso di tentato suicidio al giorno.
Oltre l’80% dei tentativi di suicido è messo in atto da bambine e ragazze, l’età media è di circa 15 anni, la più giovane aveva 9 anni, così come, molti sono i ragazzi universitari.
Quali sono i fattori di rischio?
Ad incidere sono fattori di rischio come la presenza di un disturbo dell’umore, le condotte autolesive (procurarsi tagli e ferite sul corpo), l’abuso di alcool o altre sostanze, il suicidio di un familiare e tentativi precedenti di suicidio, avversità familiari o traumi (violenza fisica, sessuale o emotiva, maltrattamenti, violenza familiare, divorzio conflittuale dei genitori), ragazzi che subiscono atti di bullismo, cyberbullismo o gesti di discriminazione collegati alla loro razza o all’orientamento sessuale (gay, lesbiche, transessuali). Anche le aspettative, i modelli familiari e socio-culturali, hanno la loro influenza, e l’episodio di Chieti non è isolato. Il motivo non è riscontrabile tanto nello status di studente, quanto nelle aspettative che la nostra cultura della performance interiorizzata (e dei risultati produttivi) ha stabilito.
Quale sofferenza e quali pensieri angosciano?
Come un ospite indesiderato che, fatto finalmente uscire dalla porta d’ingresso rientra dalla finestra, non una finestra, ma da tutte le finestre, così come in tutti gli ambiti della vita (famiglia, amici, tempo libero…), l’angoscia dei ragazzi che incontro nel mio studio ruota attorno ad alcuni temi-chiave: il non essere all’altezza, il sentirsi inadeguati, il giudizio degli altri, il senso del fallimento, dell’inutilità, la fatica di accettare il confronto fra la grandiosità immaginaria del sé e la costitutiva inadeguatezza delle proprie esperienze quotidiane. Accanto all’ansia, agli attacchi di panico, ai pensieri intrusivi, molti ragazzi mettono in piedi una serie di rituali, ripetuti molte volte durante l’arco della giornata, che hanno la funzione di rassicurarli. Sono rituali propiziatori (per placare l’ansia da esame devo mettere quella maglietta), o preventivi (per evitare l’interrogazione devo mettere i libri della mia camera in una certa posizione). Comportamenti e pensieri di per sé “sani”, come il voler superare un esame o l’attenzione per l’interrogazione o il controllo della realtà, ma che vengono portati all’eccesso e trasformati in compulsioni irrefrenabili, con il rischio di attribuire il merito al rituale e l’insuccesso a se stessi, creano una “gabbia” finendo inevitabilmente per aumentare l’ansia, la bassa percezione di sé e l’insicurezza.
Perché i tentavi di suicidio sono così diffusi?
Nella nostra società ognuno di noi, perfino Julia Ituma, fin da bambino viene abituato, o meglio addestrato, ad eseguire compiti che devono obbedire a una precisa norma o raggiungere determinati standard. Quella di oggi la potremmo definire la società delle performance e della fragilità relazionale. Un tempo la società era più coesa, c’erano molti corpi intermedi che potevano attutire qualsiasi forma di disagio e di malessere. Oggi molte forme di coesione sociale e di mutuo aiuto sono saltate. Ogni giovane cresce molto più isolato dagli altri, dove l’abuso dei social media insieme all’importanza, specialmente per i più giovani, di ricevere riscontri positivi per quanto riguarda la propria immagine, hanno un tema centrale.
È possibile prevenire il suicidio?
Prevenire il suicidio è possibile, perché il tema è più attuale e urgente che mai. In questo articolo, partendo dalla vicenda di Julia Ituma, abbiamo visto i numeri, i fattori di rischio, le diverse modalità, si tratta di intercettarne il rischio e intervenire con efficacia, a partire dalla non sottovalutazione del malessere e del disagio, specie tra i più giovani! Un terapeuta che ha chiaro che strada intende percorrere, sarà in grado di guidare la persona verso un progressivo miglioramento, lavorando sui fattori protettivi, quali: immagine positiva di sé, adeguate abilità di problem solving, supporto sociale e/o familiare, flessibilità cognitiva, trattamento adeguato di eventuali disturbi o eventi traumatici e non utilizzo di alcol e sostanze. Se invece, il rischio è elevato (ideazione fissa, pianificazione, psicopatologia o abuso di sostanze, situazione psicologica instabile, accesso a mezzi autolesivi, comportamenti a rischio e isolamento sociale) è necessaria l’ospedalizzazione volontaria o, in situazioni estreme, il ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) se viene rifiutato il trattamento.
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