L’uomo è drammaticamente solo nell’esperire. E’ solo nel corpo che abita a confine tra il Sé e il non-Sé; e’ solo in quanto straniero a se stesso; è solo nella “separatezza” come essere distinto dall’altro. Ciò che è separato aspira ad essere reintegrato per nostalgia dell’interezza perduta e «alla brama e all'inseguimento dell'interezza, ebbene, tocca il nome di amore» (In L’Androgino di E. Zolla).
L’amore, la sessualità, dunque, come tentativi da parte dell'Io di tornare nel grembo materno e riparare all’angoscia antica che ha memoria sensoriale di un tempo in cui il Sé era l’Altro indistinto.A questo proposito mi viene in mente lo psicoanalista francese Jacques Lacan il quale utilizzò il racconto di Aristofane nel Simposio platonico per spiegare questo passaggio. Aristofane narra che, nel tempo mitico, l'umanità comprendeva tre sessi: maschio, femmina e androgino. Gli androgini possedevano «forza e vigore terribili, e straordinaria superbia, e attentavano agli dei». Giove allora decise di tagliarli in due perché, «divenuti più deboli, smettano la loro tracotanza». Ma «quando la natura umana fu tagliata in due, ogni parte, vogliosa della propria metà, le si attaccava, e gettandosi le braccia attorno, avviticchiandosi l'un l'altra, nella brama di fondersi insieme morivano di fame e in generale di inazione, perché nulla volevano fare l'una staccata dall'altra».
Per Lacan il neonato è, metaforicamente, quella metà degli androgini dopo la divisione che ha perso il suo completamento costituendosi «mancanza ad essere».
L’Essere desidera ricongiungersi alla Assenza per riformare l’unità della nostra antica natura, ma l’immagine platonica solleva, così facendo, il problema della morte: «Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all’altra. […]E quando una delle due metà moriva, e l’altra sopravviveva, quest’ultima ne cercava un’altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l’altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile».
Nell’incontro con l’altro, si ripone la speranza di trovare “l’anima gemella”, “la dolce metà” da accostare alla propria metà e giacere nella cavità uterina così come si iscrive generalmente sulle tombe. E’ certo che la permanenza in utero oltre il termine porta alla morte del feto e della madre così come le fantasie inconsce di ritorno allo stato fetale equivalgono alla morte psichica, anche se il termine “morte” è improprio dato che la mente non muore mai, piuttosto inventa nuove modalità (psicopatologiche) di essere al mondo. La regressione allo stato intrauterino è il preludio psicopatologico dei quadri psicotici là dove il ritorno alla madre è, e non potrebbe essere altrimenti, simbolico.
Già Freud scriveva: «con la nascita si è formato un impulso a ritornare alla vita intrauterina, un impulso a dormire: il sogno è un tale ritorno nel grembo materno». L’ipotesi è che il sogno rappresenti il corpo materno per cui «sognare significa prima di tutto tentare di mantenere l’impossibile unione con la madre, preservare una totalità indivisa» (J.B. Pontalis, Tra il sogno e il dolore).
Il risveglio come la nascita è una chiamata alla vita che c’è fuori, oltre quell’egoismo a due, per andare verso e nel mondo, incontrare la folla, i rumori, il caos che contempla l’esistenza e domandarsi “Chi sono io?” lungo quel processo di individuazione in continuo divenire. Un percorso obbligato alla conquista di una identità dolorosa.
In “L’arte di amare”, E. Fromm scrive: «il masochista sfugge all'insopportabile senso di separazione e solitudine rendendosi parte di un'altra persona che lo domina, lo guida, lo protegge; che è la sua vita e il suo ossigeno. […] Il sadico vuole sfuggire alla propria solitudine, al proprio senso d'isolamento, impossessandosi di un'altra persona. Sublima se stesso incorporando un altro essere, che lo idolatra».
La solitudine, come suggerisce E. Borgna, è una condizione ineliminabile dalla vita e come tale va rispettata, accettata e vissuta. La solitudine non è un’esperienza necessariamente patologica: esiste una solitudine vitale che crea forme d’arte come quella dei poeti che rendono dicibile l’indicibile, traduttori d’anime perdute. Allorché la sofferenza è trasformata in bellezza che commuove chi la riconosce nell’incontro con se stesso.
La solitudine interiore apre le porte all’anima in un’esperienza di riflessione e contemplazione, tristezza e angoscia, silenzio e preghiera, attesa e speranza e l’anima tende verso l’altro dopo essersi ritrovata.
Il salto, in campo terapeutico, è il passaggio da una solitudine “chiusa” a una solitudine “aperta”, dall’isolamento in sé o nell’altro alla espressione dialettica che passa dall’isolamento e, attraverso la capacità di attribuire senso e significati, ne propone il superamento a chi rimane a vivere senza un testimone della propria esistenza.
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