Non una di più. Riflessioni in occasione della giornata della donna.
Nell’occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne voglio scrivere alcune riflessioni, partendo innanzitutto dalla definizione di questa violenza come indicata dall’art. 1 della dichiarazione ONU: “ è violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.
L’attuale celebrazione del processo a carico di Filippo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin viene rappresentata quotidianamente dalle televisioni nazionali, ma non dà il senso della gravità del fenomeno: sono 101 le donne uccise dal 1 gennaio 2024 al 25 novembre, spesso vittime di mariti, familiari, o compagni di una relazione affettiva terminata.
E grave è anche il numero delle segnalazioni pervenute al numero antiviolenza nei primi 11 mesi dell’anno: circa 48 mila contatti con un aumento del 57 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023 ( dati della Presidenza del consiglio).
Anche fuori del nostro paese i dati pubblicati dall’ONU indicano lo stesso trend: circa 736 milioni di donne (quasi una su tre) sono state vittime di violenza fisica e/o sessuale da parte del partner, o altre persone, almeno una volta nella vita.
E’ difficile comprendere le cause di un fenomeno tanto radicato che affonda le radici in ragioni soprattutto culturali, ma anche sociali ed economiche, ma proviamo a fare qualche riflessione.
Innanzitutto, dobbiamo considerare il negazionismo storico del problema violenza come fatto culturale ma piuttosto come un quasi inevitabile problema di natura istintuale, quell’istinto che attribuisce all’uomo una alta dose di aggressività in quanto destinatario della tutela della famiglia, della società, della specie. Naturalmente se così fosse non sarebbe un problema esclusivo della specie umana, come invece sembra essere quando la violenza si assume a guardia di pratiche sociali, del potere, del diritto (del più forte) e si colora con le espressioni del linguaggio e della cultura.
Ma riportare la violenza agita dall’uomo nei confronti della donna nell’ambito delle consuete tutele contro le aggressioni ha richiesto molto tempo e quello che è stato recepito a livello giuridico non è stato elaborato a livello culturale; si punisce giuridicamente la violenza contro moglie e figli per ricondurli all’obbedienza, ma sono pratiche culturalmente ancora attuali, si punisce il delitto d’onore, ma l’onore e il possesso sono ancora i principi ispiratori di molti delitti, l’approccio sessuale costretto trova spesso giustificazione nel concetto culturale della “provocazione”, così da interpretare le possibili giustificazioni del maschio abusante anziché il fatto verificato della violenza.
Il problema si esprime anche nell’ambito dell’aumento delle condotte aggressive espresse dalla nostra società: il senso di incertezza rispetto al futuro che vivono i nostri ragazzi (e che non ci stanchiamo di considerare già di per sé una conseguenza negativa della costruzione sociale attuale a cui non si presta nessuna attenzione riparatoria) richiederebbe dei forti riferimenti ideologici, la presenza di modelli positivi, l’accudimento delle loro incertezze e fragilità. La società invece li allontana dai genitori che per costrizione o per scelta sono impegnati per molte ore della giornata nel lavoro, l’accudimento familiare lascia il posto all’ accoglimento del branco, i modelli proposti sono spesso negativi per quel che riguarda il rispetto delle regole sociali. E’ facile cadere nella logica della legge del più forte, e, con riguardo allo scontro fisico le donne hanno quasi sempre la peggio.
Ci vuole un cambiamento culturale, quindi, che richiede un intervento sulle nuove generazioni a cominciare dall’infanzia, quindi un lavoro che investa anche le scuole fin da quelle della prima infanzia e fino agli istituti superiori.
Ma serve anche altro.
Parliamo, allora, dei mezzi di informazione e della esaltazione delle espressioni violente nei talk-shaw, nelle serie tv, nelle ricostruzioni di omicidi efferati, nell’esaltazione di eroi criminali nei films e nelle fictions.
Per “l’audience” si trasmettono spettacoli dove violenza e sessualità spesso sono mescolati e proposti in maniera spesso ingiustificata, dove si spettacolarizza la rappresentazione di drammi familiari, guerre, attentati, catastrofi, e dove il rapporto sessuale viene spesso proposto sotto forma di prevaricazione violenza, di possesso, dell’uomo rispetto alla donna.
Il linguaggio giornalistico trasforma il racconto in uno scoop che deve essere necessariamente ad alta tensione e ad alta diffusione, e questo non fa che rafforzare il senso di insicurezza dello spettatore e la sua carica di aggressività.
In più, rinvia al pensiero di una sempre lecita e sconsiderata possibilità di diffusione di fatti e immagini che, sebbene sottoposta a stretti limiti dalla legge, diffonde l’abitudine ad un uso sconsiderato di notizie, fotografie, telefonate, messaggi, che provocano conseguenze spesso gravissime nella psiche e nella considerazione sociale del danneggiato.
Meglio dire danneggiata, dal momento che la diffusione di una stessa fotografia – ad esempio una coppia di ragazzi in atteggiamento intimo – provoca conseguenze assolutamente diverse in una ragazza, sottoposta sicuramente allo stigma della nostra cultura ancora maschilista, che in un ragazzo, per il quale può diventare, magari, anche fonte di riconoscimento sociale.
Infine, la politica, anzi il linguaggio usato dalla politica, sempre più violento ed aggressivo.
Quello che doveva essere un momento di confronto e di e composizione delle idee necessario per la crescita di un paese è diventato uno spazio di propaganda elettorale dove sono privilegiate le esaltazioni muscolari e gli atteggiamenti così ben rappresentati da Mario Monicelli ed Alberto Sordi nel film “il Marchese del Grillo”, comportamenti che fanno scuola nella cultura dei giovani.
Naturalmente anche il linguaggio della politica è affidato ai media e si avvale delle sue capacità persuasive provocando assuefazione culturale, condizionamento, visione distorta della realtà, processo di identificazione , ma soprattutto processo di proiezione, “che consiste nel vivere in modo immaginario sentimenti e situazioni che il soggetto non può realizzare nella realtà, finendo con il “proiettare” per traslazione i propri desideri su un personaggio che ama e che odia, che pratica la violenza e che risulta sempre vincente, come il soggetto vorrebbe amare, odiare, aggredire, trionfare”[1].
Ma allora, in questo contesto socio-culturale quanto può la donna, da sola, contribuire al proprio riscatto sociale; i riferimenti normativi nazionali ed internazionali e le posizioni espresse nelle varie sedi istituzionali a favore di una teorica “uguaglianza di genere” quanto si scontrano con una cultura ancora opportunisticamente legata alla prevaricazione maschile?
No, non può.
Federica AgovinoP
Psicoterapeuta
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