La patologia che colpisce maggiormente il così detto immaginario collettivo, quella sorta di grande cervello che contiene e rappresenta genericamente tutti noi e che ci unifica spesso nella condivisione di un sapere superficiale e stereotipato o di una fantasia o di pregiudizi che si radicano e si auto confermano, è l’anoressia e l’immagine della persona anoressica, impressionati dall’estrema magrezza che richiama gli orrendi ricordi dei lager. Difficile rimanere insensibili, difficile capire, difficile avvicinarsi emotivamente e dare un senso ad una visione che disturba e forse evoca inconsciamente tempi passati di miseria e carestie. Più facile difendersi ritraendo lo sguardo e liquidare con affrettati e sommari giudizi. Forse solo quando l’anoressia porta alla morte ci rendiamo conto della gravità estrema di questa malattia, che qualcuno ha definito “malattia del corpo e dell’anima”, o quando ci tocca da vicino.
Ma esiste un’altra forma di patologico rapporto con il cibo, a volte alternativa all’anoressia, a volte invece che l’accompagna, che non è meno pericolosa: la bulimia. Situazione ancora più complessa, se vogliamo, che condivide con l’altra l’ideale della magrezza come obiettivo supremo, ma che è molto più difficile da evidenziare, dall’esterno, perché chi ne è affetto non cambia in genere aspetto esteriore.
La persona bulimica (anche qui di gran lunga più femminile che maschile) mangia in quantità e maniera spropositate cibo che trova in dispensa o in frigorifero, senza alcuna attenzione allo stato in cui è. Può essere caldo o freddo o congelato, gustoso o pessimo, ciò che conta è ingurgitare più roba possibile e riempire il vuoto interno.
Se l’anoressia rappresenta il controllo ferreo e senza pietà dell’assunzione di cibo, tendente all’ideale dell’eliminazione totale, la bulimia è il suo contrario, e cioè la perdita totale del controllo, l’abbandono all’ingurgitare di tutto, per nutrire una fame che non esiste, che va al di là del normale stimolo fisiologico, per assumere un significato totalmente psicologico e simbolico.
Anche in questo caso il cibo e la sua preparazione assume la forma di un pensiero ossessivo e cioè onnipresente, che assorbe tempo ed energia, ma qui c’è la resa e quindi la sconfitta. Non la vittoria esaltante dell’astensione anoressica, ma la drammatica perdita dopo tentativi di resistenza destinati al fallimento. La conseguenza è l’autocolpevolizzazione, la sensazione di una incapacità pervasiva e la perdita di controllo di sé. Per “rimediare” c’è il ricorso al vomito autoindotto, per liberarsi di un peso, allo stesso tempo fisico e mentale.
Il peso corporeo può così rimanere inalterato a lungo, in questa continua altalena di riempire e svuotare ed il segreto può durare a lungo, nel chiuso del bagno di casa o nelle ore notturne.
E’ questo un sintomo nato e cresciuto nel dolore e colorato di vergogna. Chi ne è portatore si nasconde, colpevole di un comportamento indegno, che ne mina l’autostima e che tiene quindi ben chiuso dentro di sé, rendendo ancora più difficile l’impresa di affrontarlo, rivelarlo e risolverlo.
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