"La parola stessa è un agito. Ma è anche un vagito che possiamo cercare di sentire e far sentire" (S.Marinelli,2004). Mi appresto a scrivere questo articolo in modo discorsivo, evocativo, per avvicinare silenziosamente, senza disturbare, il dolore dell'anoressia e di coloro che tentano di ascoltarla. Tantissimi autori si sono occupati di anoressia e sono stati scritti innumerevoli manuali sull'argomento, sulle cause originarie che spingono poi il bambino, l'adolescente o l'adulto a sviluppare un'organizzazione sintomatica e comportamentale apparentemente ripetitiva e identica: rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l'età e la statura, un'intensa paura di ingrassare, un'alterazione del modo in cui la persona vive il suo corpo e la sua forma, l'amenorrea (DSM IV-R). Si è ritenuto a lungo che il disturbo anoressico fosse un campo di pertinenza della psichiatria, poi un mancato superamento della fase orale (Freud,1905), una difficoltà nella relazione duale madre-bambino, binomio indissolubile sul quale i processi mentali e le dinamiche affettive si appoggiano (Winnicott, 1974), una malattia del gruppo sociale più ampio (Neri,1995) o una critica al gruppo patogeno originario (Comelli,2004). Ho sentito, inoltre, parlare di anoressia come uno "stile di vita" o una "moda".
Il mio punto di vista è che, se da una parte la conoscenza approfondita del disturbo è utile ad avere una visione globale del problema, dall'altra non è sufficiente per affrontare il problema. E' necessario porre l'attenzione al singolo, nella prospettiva che esistono tante "posizioni anoressiche" quanti sono gli individui che ne soffrono, ognuno con la propria storia, il proprio dolore, con la propria lotta quotidiana contro la morte. Il "racconto anoressico" è carico di comunicazione e significato, spesso ricco di rituali radicati in una raffinata e angosciata denigrazione del corpo o nella sua esaltazione. Spesso è un racconto silenzioso, fatto di sdegno ed ingabbiante controllo. Spesso è un racconto particolareggiato e pieno fatto di una massa di parole, cibo, emozioni, esperienze non assimilate e digerite. Spesso il racconto è fatto di fame, di mancanza, di dolore fisico e psichico. "In gruppo ci si sente meno soli, se si può condividere l'esperienza". Il gruppo terapeutico, pertanto, come una rete, una trama capace di reggere e contenere emozioni, parole, agiti. Uno spazio e un tempo in cui apprendere che il nucleo identitario frammentato può evolvere verso una maggiore integrazione di Sé e con il mondo. In fondo il "fatto alimentare" non esiste; è uno stile, un adattamento.
E' alle emozioni sottostanti che bisogna mirare, ad una lenta destrutturazione delle gabbie mentali e ad una continua ricostruzione e rinascita del Sè. In un contesto di gruppo tutto questo è sì amplificato e complesso, ma possibile proprio grazie al rispetto delle diversità, nel riconoscimento del proprio dolore nell'esperienza altrui. Il ruolo del terapeuta è quello di tracciare i confini, contenere emozioni potenti, facilitare la condivisione, rassicurare e assicurare la protezione, seguire con attenzione ed intenzione la direzione che il gruppo prende, consapevoli della continua mutabilità, morte e rinascita dello stesso. Anoressia, dunque, come la miglior forma di adattamento che la persona trova per reggere il dolore. Gruppo terapeutico come occasione di sperimentare nuove possibilità di "essere nel mondo".
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