Il rapporto esistente tra il soggetto tossicodipendente e la sostanza (oggetto della sua dipendenza) risulta impregnato dall’antitesi tra vita e morte. Quanto il soggetto tossicomanico vorrebbe vivere e quanto desidererebbe morire? E quanta esigenza c’è in lui di riuscire ad appagare l’angoscia di morte arcaica che dimora dentro di sé?
“Pervenire all’angoscia di morte è un sollievo, perché c’è una finalità. Ma occorre coraggio per ammetterlo. Qual è il piacere nella ripetizione del suicidio? Dillo anche a noi tossicomane, tu che ci vai più vicino di tutti. Qual è il piacere dell’angoscia? Qual è la legge del più forte? L’inferno è qui. Il piacere, forse, può essere la fine dell’inferno. Ma se l’inferno siamo noi?” (Olievenstein, Ritmo XXVII)
La presenza del rischio di morte e la coscienza di tale rischio è, secondo buona parte della letteratura scientifica, caratteristica importante del comportamento dei tossicomani, tanto da poter definire la sfida verso tale rischio come una condotta ordalica: bisogno e ricerca di rigenerazione (Charles-Nicolas e Valleur, 1987).
In altri casi, più che un andare verso la morte, la droga viene pensata, paradossalmente, come un “aiuto a vivere”: sia la sostanza che l’approccio verso la vita, apparentemente distruttivo, irriverente ed incurante, che il tossicodipendente sembrerebbe avere, possono infatti costituire il tentativo, messo in atto dal soggetto, di rimanere in contatto con la vita stessa. Questo comportamento e il ragionamento che lo determina, potrebbero derivare da una precisa funzione della tossicomania: “soddisfare il bisogno di rischiare la morte per poter vivere” (Bonetti A., Bortino R., 2011). Tale interpretazione del fenomeno si fa forte, nello specifico, dell’osservazione diretta del comportamento di alcuni tossicodipendenti che una volta terminato il percorso di disintossicazione, non facendo più uso di sostanze, hanno tentato il suicidio come a voler urlare la loro disperazione: non potendo più usufruire del supporto della sostanza per vivere, altro non mi resta che la morte.
Molti i tentativi di poter trovare dei significati attribuibili al desiderio di vita, al desiderio di morte, all’uso delle sostanze, ad un gesto disperato come il suicidio, slegandoli dal soggetto che li vive, ma essi sono fattori che non possono essere né interpretati separatamente, né gli si può conferire loro un valore assoluto. Queste variabili vanno lette ed interpretate contestualizzandole all’interno del vissuto e dei percepiti del soggetto; fattori quindi comprensibili solo se letti all’interno del quadro esistenziale globale della persona.
Nonostante l’origine multifattoriale del fenomeno e le diverse sfumature che esso può acquisire, esiste un fattore che accomuna tutti i quadri tossicomani: la “sofferenza”. E’ dentro questa sofferenza, che può essere di varie entità e venire elaborata dai soggetti in modalità diverse, che la persona tossicodipendente rimane imbrigliata.
Consciamente o inconsciamente che sia, il tossicodipendente sembrerebbe essersi perso davanti al bivio “vita-morte” e davanti ad esso, in preda alla cecità, procuratagli dalla sofferenza che non è riuscito a gestire, confuso e smarrito, non sapendo bene se dirigersi verso la vita o la morte, sentendo le sue gambe semiparalizzate, altro non riesce a fare se non chiedere conforto alla sostanza.. alle droghe che altro non divengono se non “..veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina” (Chatwin).
Approfondimento Teorico
L’interpretazione psicoanalitica originaria (Freud, Abraham e Rado) degli abusi di sostanze interpreta tale fenomeno come il risultato di una regressione allo stadio orale dello sviluppo psicosessuale e quindi un tentativo di risolvere conflitti irrisolti di sessualità aggressiva. Interpretazione successivamente sostituita da una comprensione della maggior parte degli abusi di sostanze stupefacenti come difensivi ed adattativi piuttosto che regressivi (Khantzian, 1985, 1986,1997; Wurmser, 1974).
I ricercatori psicoanalitici contemporanei vedono il comportamento tossicomane più come un riflesso della capacità di prendersi cura di sé che come un impulso autodistruttivo (Khantzian, 1997). Questa ridotta capacità di prendersi cura di sé sarebbe il risultato di precoci disturbi nello sviluppo che, caratterizzati da un’inadeguata interiorizzazione delle figure genitoriali, rendono la persona incapace di proteggere se stessa.
Attualmente, le maggiori teorie psicodinamiche spiegano la dipendenza da sostanze in rapporto alle relazioni oggettuali e alle identificazioni che caratterizzano i processi di costruzione dell’identità.
Vari sono gli autori che parlano della droga come “tentativo di vivere” e che cercano di mettere in luce le dinamiche sottostanti tale “approccio” alla vita. Olievenstein sostiene che il tossicodipendente si accosti alla fase adolescenziale con un senso di incompiutezza conseguentemente al mancato superamento della fase dello specchio durante i primi due anni di vita (teoria dello specchio infranto, Lacan). Il bambino, infatti, risulterebbe costruito in maniera fittizia dalle proiezioni materne e questo perché senza riuscire ad ottenere un riconoscimento delle proprie esigenze, come soggetto separato e diverso rispetto alla figura di attaccamento di riferimento, non riesce a portare a compimento la formazione della propria individualità. Dalla propria immagine spezzata che gli viene riflessa ne deriva un profondo senso di incompletezza, colmare e riempire questo vuoto è la funzione assunta dalla droga (una sorta di automedicazione che aiuta il soggetto a vivere consentendogli di sentire integrato il proprio sé frantumato). Volge in tale direzione anche la “lettura” di Kohut, secondo il quale, il bambino, pur di mantenere integra l’immagine ideale della madre e di sé prende le distanze dalle delusioni avute. Ciò gli consente si di lenire le proprie sofferenze ma non di costruire un Io sufficientemente forte da poter tollerare le frustrazioni. Ad aggravare questo vissuto si aggiunge la percezione del genitore come onnipotente ma non in grado di consolare. E’ in questo quadro che si rivela fondamentale il rapporto che il tossico instaura con la droga: essa infatti consente al soggetto di allontanare la percezione che ha di sé in quanto essere inadeguato. Anche secondo l’approccio clinico psichiatrico di Cancrini, fondato sullo studio dei sintomi e delle condotte osservabili, l'assunzione della sostanza ha funzione adattiva alla vita. Secondo C. l’abuso di sostanze è per il tossicodipendente un tentativo di riuscire a fronteggiare livelli di sofferenza vissuti come insopportabili ed intollerabili.
Se, come fin qui esplicato e sostenuto, la sostanza ha funzione di conforto ed è l’unica modalità trovata per poter vivere, appare chiaro che un approccio terapeutico che miri a minare il rapporto tra tossico e sostanza, senza preoccuparsi di attenzionare la persona nella sua pienezza ed unicità, quindi oltre il suo essere tossico, non può costituire un adeguato e funzionale contesto relazionale terapeutico, ma serve un approccio terapico che consenta una profonda comprensione ed elaborazione di tutte le molte "sofferenze" sottostanti tale problematica.
Dott.ssa Carmela Toscano
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