I tanti device tecnologici e informatici sempre più a misura d’uomo, sempre più umanizzati e fruibili da parte di qualsiasi utenza rispondono alla pressante finalità di marketing di voler presentare la tecnologia come così avanzata dal’avere un’indole umana, talmente umana al punto da apparire così simile al nostro modo di essere e di pensare (per appagare la necessità di percepirla familiare e dunque sicura) e deputata a svolgere le nostre stesse attività (per appagare la necessità di percepirla estremamente utile, dunque irrinunciabile). Insomma, tutto quel che serve per poter indurre i consumatori a fare un uso sempre più largo della tecnologia, sempre più avanzato ed esagerato da causare dei mali esclusivi del nuovo millennio, come la diffusione dei virus informatici, degli IAD (internet addiction disorders), della pedopornografia e del cyberbullismo, della vendita di articoli illegali e pericolosi....Se di molti di questi pericoli ho già trattato sia online sia nei convegni da me tenuti, ora voglio mettervi a conoscenza di un rischio a cui si dà poca o nulla importanza: quello di delegare ogni nostro compito a una macchina (principalmente di tipo informatico, cioè un PC, uno smartphone o un tablet). Come visto sopra, oggi le multinazionali dell’informatica − al fine di incrementare i guadagni e mantenersi concorrenziali − immettono sul mercato prodotti che presentano via via più funzionalità e in grado di fare sempre più cose...a scapito della mente umana! Facendo un esempio semplicissimo come i calcoli aritmetici, se si prende la brutta abitudine di effettuare qualsiasi calcolo − anche il più banale − tramite la calcolatrice, mano a mano sarà sempre più difficoltoso fare dei calcoli a mente; un altro esempio è costituito dai contatti telefonici: se si fa troppo affidamento sulla rubrica del proprio telefono − rinunziando a tenere a mente anche i numeri più importanti − si finirà per scordarli e, qualora il cellulare dovesse non funzionare (ad esempio perchè rotto, smarrito, rubato o − evenienza comunissima oggigiorno − scarico), si finirà con il non essere più in grado di chiamare alcun numero, nemmeno in caso di emergenza. Il fenomeno esemplificato poc’anzi è spiegabile a livello di plasticità cerebrale: le connessioni sinaptiche che non vengono sollecitate per molto tempo finiranno per sciogliersi e dunque sarà molto difficoltoso − se non impossibile − (ri)fare certe cose che non si fanno da molto tempo, e che pertanto andrebbero obbligatoriamente riapprese. Ma all’evenienza che la tecnologia ci “lasci nei guai” non si pensa quasi mai: non è infatti interesse delle multinazionali dell’informatica, nè delle imponenti campagne pubblicitarie da queste poste in atto, descrivere (anche) i limiti dei loro prodotti.
Tutto ciò porta inevitabilmente a un effetto paradosso: spesso, quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più è invalidante. Facciamo l’esempio degli antivirus, i cui produttori sono alle prese con un mercato saturo e ipercompetitivo: la gran parte degli stessi è descritta con toni enfatici, epici e altisonanti, come “la miglior suite antivirus di sempre”, con cui poter “navigare sul web nella più totale tranquillità”. Il messaggio è chiaro: fate quello che vi pare su internet − anche le cose più pericolose e senza cervello − perchè tanto ci pensa il super antivirus X Y a tutelarvi da ogni sorta di virus, trojan, backdoor, spyware, adware e chi più ne ha più ne metta. In tal modo si invita indirettamente l’utente a delegare la propria sicurezza informatica a un software (cioè alla “macchina”), andando paradossalmente ad aumentare il rischio potenziale di imbattersi in minacce informatiche: se infatti un utente fosse consapevole che qualunque antivirus, persino il migliore, non essendo perfetto potrebbe anche non rilevare alcuni malware, arriverebbe all’inevitabile (e corretta) conclusione che il primo antivirus è la propria mente. Dunque, pensare di non aprire allegati da mail sospette, evitare di visitare siti potenzialmente pericolosi, tenere costantemente aggiornato il proprio device.... Ora non sto asserendo che l’antivirus non serva, ma prima di tutto viene la mente, quella umana, per il semplice fatto che le macchine non ne sono in possesso e non ne saranno mai. É impensabile asserire che le macchine possano in futuro arrivare ad eguagliare o addirittura superare le performance umane, e ciò è confermato dal fatto che l’uomo − non essendo Dio − non è mai riuscito a creare una copia di se stesso sotto forma di macchina, nemmeno con l’ausilio delle notevoli innovazioni della scienza e della tecnica che sono disponibili al giorno d’oggi. Chi sostiene il contrario (cioè principalmente le già citate multinazionali) è pienamente consapevole di mentire, ma lo fa per meri fini di marketing, con l’obiettivo di esaltare ed osannare le caratteristiche e funzionalità dell’ultimo prodotto posto sul mercato. E chi sono i consumatori più colpiti da tale propaganda mediatica? Chi è nato con questo tipo di tecnologia, da cui ora è assuefatto: i millennials. Al giorno d’oggi ci sono fin troppi giovani i quali hanno instaurato un rapporto malsano con la tecnologia: non uno di utilità, ma di dipendenza, di schiavitù.
E, come al solito, la scuola è in gran parte estranea a questo malessere in cui oggi versano i giovani, notandone le conseguenze più che altro sul solo piano didattico. Ma se un alunno non riesce, ad esempio, a scrivere correttamente un tema (poichè il linguaggio a cui è abituato − cioè quello delle chat − è molto diverso da quello di un elaborato scolastico), l’insegnante non dovrebbe limitarsi a dare un cattivo voto, ma dovrebbe tenere delle lezioni sul corretto e sano uso della tecnologia, mettendo in risalto non solo le opportunità che la stessa offre (di cui i giovani sono tipicamente consapevoli), ma anche e soprattutto i limiti e i risvolti negativi su cui porre attenzione, dato che ne sono pur sempre parte integrante. E sono anche in continuo aumento. Quest'anno è infatti avvenuta la frode informatica di dati personali (principalmente indirizzi email e password) più grande della storia di internet, con circa 22 milioni di vittime in tutto il mondo, a cui ha fatto subito seguito l’appello di numerose ditte informatiche di utilizzare i loro programmi per creare un archivio sicuro in cui custodire le password personali e/o permettere di crearne altre più sicure con l’ausilio del software stesso. Una domanda sorge però spontanea: se gli hacker sono riusciti a carpire password persino da giganti del web come Facebook o LinkedIn, non saranno anche in grado di fare lo stesso con questi “archivi protetti”? Forse è meglio far affidamento sulla nostra memoria: è molto meno pubblicizzata e fuori moda, ma in compenso tanto più sicura ed affidabile.
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