1) Si mette in gioco
Se nelle altre terapie l’alleanza tra paziente e terapeuta è necessaria per permettere l’instaurarsi di quella fiducia che porta il paziente ad accogliere la nuova cornice di riferimento proposta dal terapeuta, nella Psicoterapia ipnotica si verifica un rovesciamento dei ruoli: ciò che si crea tra paziente e terapeuta è una vera e propria sintonizzazione congiunta che accomuna entrambi con lo stesso modo di sentire, vedere e percepire: in questo modo il terapeuta può adottare e accettare la realtà di riferimento del paziente e il paziente può condividere con esso la propria sofferenza in un modo del tutto simbiotico e autentico. È il terapeuta che deve fidarsi del paziente: del suo inconscio e del suo modo di sentire!
Il tipo di conoscenza che il terapeuta deve avere del suo paziente deve andare ben oltre la “conoscenza” analitica e anamnestica formale, ma sarà una conoscenza “Intuitiva” e profonda, data da una lunga esperienza di osservazione del paziente in ogni suo aspetto (verbale e non).
Il paziente, d’altro canto, deve poter "sentire” il suo terapeuta, in uno slancio emotivo-affettivo dove riconosce che le capacità empatiche e di contenimento che esso mostra gli derivano dalla sua profonda conoscenza della sofferenza umana, che in parte ha personalmente vissuto e sperimentato.
“C’è un coinvolgimento totale, anche emozionale, da parte del terapeuta, il quale però non deve entrare nel caos emozionale del paziente, ma è colui che mantiene la mente del paziente su una certa strada che lo porterà poi, nella via più breve, all’obiettivo condiviso.”
— S. Giacosa, 2011
I casi: riportiamo qui qualche esempio “verbale” di quella sintonizzazione profonda tra paziente e terapeuta che talvolta è estremamente difficile tradurre in parole:
F. “[riferendo un episodio disagio in una situazione relazionale] Mi sono sentito come un pesce fuor d’acqua, come se nessuno potesse capire come stavo… e ho desiderato fortemente essere qui, sul mio lettino [riferito alla chaise longue ipnotica] dove lei, invece, lo sa benissimo e sa che cosa si prova.”
D.: “Se dovessi avere qualche incertezza durante la settimana la chiamo al telefono, altrimenti mi arrangio da sola, tanto lo so che lei c’è, si insomma... che per me c’è, c’è sempre e comunque!”
2) Partecipa al processo di cambiamento congiuntamente al paziente: la responsabilità reciproca
In quest’ottica il terapeuta passa dal ruolo di osservatore estraneo che induce nel paziente il cambiamento dall’esterno a quello di soggetto che, congiuntamente al paziente, è partecipe del suo stesso intervento.
In questo rapporto, creato attraverso il coinvolgimento emotivo del paziente, l’influenza interpersonale è elevata: il terapeuta avrà un ruolo importante nelle decisioni di vita del paziente e dovrà pertanto assumersi determinate responsabilità pur stimolando la sua capacità di decisione. D'altra parte il paziente, soprattutto se ha già sperimentato precedenti approcci terapeutici fallimentari, nell’accostarsi alla psicoterapia ipnotica (spesso nell’attesa di un "miracolo ipnotico”) finisce per decidere autonomamente di intraprendere una nuova via terapeutica e accetta più o meno consciamente di assumersi l’onere per i risultati terapeutici. Ciò fa sì che il paziente, esprimendo finalmente nel contesto terapeutico, in modo verbale e non, i suoi bisogni e intenzioni a livello del funzionamento inconscio, faccia coincidere i propri scopi con quelli terapeutici. Scopi che sono quindi scelti ed espressi dal paziente, non più semplicemente “Indicati” dal terapeuta che è andato a consultare. Il paziente è così posto nella condizione di poter finalmente accettare quella terapia che in precedenza aveva rifiutato.
“Nelle psicoterapie tradizionali, ritualistiche e convenzionali, si compie, spesso inutilmente, un grande sforzo per indurre il paziente ad assumere adeguatamente la responsabilità per il proprio comportamento e il proprio futuro. E ciò senza tenere in alcun conto il fatto che il paziente pensa consciamente e crede fortemente, come in una verità assoluta, che ogni sforzo da parte sua sia vano.”
— M. Erickson, 1980
3) Conosce a fondo il suo paziente, osservandone il comportamento e il modo di comunicare
Entrare in alleanza empatica con il proprio paziente significa, per Erickson, avviare un profondo processo di conoscenza che trascende la sola raccolta formale e standard dei dati anagrafici e anamnestici: osservare il paziente significa scrutarlo in ogni minimo dettaglio dall’atteggiamento verbale e non verbale sia nel dialogo che in stato di trance (movimenti del corpo, postura, respirazione, funzioni fisiologiche di base), fino alle diverse reazioni che il paziente presenta agli stimoli che gli vengono proposti, utilizzando i suoi stessi racconti come strumenti diagnostici.
Ad esempio, una reazione d’irrigidimento in corrispondenza di uno specifico punto di un racconto segnala la presenza di un nodo cruciale più o meno conscio al paziente e così via.
A questa attività Erickson dava molto spazio, tanto da crearsi un bagaglio di conoscenze pregresse che, con il procedere della sua carriera, gli consentissero ogni volta di individuare in poche battute le criticità di ciascun paziente
“Uno dei più importanti e utili approcci di Erickson potrebbe essere chiamato ‘la lettura della mente’. Osservando attentamente il paziente, e rispecchiando il suo comportamento e le sue risposte, Erickson dà al paziente stesso la sensazione di leggergli nella mente e di conoscerlo realmente.”
— M. Erickson, 1982
Lo scopo di tale sforzo cognitivo era duplice: da un lato solo l'osservazione del paziente da molteplici punti di vista gli consentiva di raggiungere una certa obiettività psicologica, a differenza dei principali orientamenti terapeutici che si limitano ad approcciare il paziente solo dall’alto del proprio schema di riferimento.
Dall’altro, solo la comprensione effettiva del modo di comportarsi e comunicare dei pazienti gli consentiva di padroneggiarli a tale punto da agire sia in direzione diagnostica che terapeutica: procedendo all’individuazione degli schemi disfunzionali e considerando possibili alternative utili che poi sarebbero state proposte al paziente.
L’approccio che usa il terapeuta ericksoniano è di tipo naturalistico: il terapeuta entra a tutti gli effetti nella vita quotidiana del paziente, nelle sue esperienze più semplici e pratiche, nel suo linguaggio stesso, per potersi adattare ad esso e comunicare con il paziente nella sua stessa lingua.
I casi: La conoscenza dei nostri pazienti non è mai esaustiva, tuttavia può essere sufficientemente approfondita.
F.: “[a inizio seduta] Mi deve sgridare, non ho fatto i compiti. Mi stavo inventando una scusa come faccio con tutti ma poi mi sono ricordato che con lei è diverso, mi conosce bene e mi avrebbe capito subito!”
D.: [Ottava seduta, sto raccontando di un caso precedente, apparentemente molto lontano dalla storia della paziente. Improvvisamente D. sembra destarsi dal noioso torpore e andando su tutte le furie esclama:] “Ma non poteva dirgli di farseli lui i suoi conti? non è una cosa che tocca fare a lei!” [la seduta successiva verrà dedicata alla trattazione delle difficoltà, emerse solo a questo punto, che D. vive nel luogo di lavoro, dove viene continuamente oberata da compiti e mansioni altrui].
4) Accetta e utilizza la visione del mondo del paziente
Uno dei compiti più difficili a cui è chiamato il terapeuta ericksoniano è quello di accettare a pieno la visione del mondo che gli propone il suo paziente dopo averla conosciuta, anche quando quest’ultima si riveli parzialmente distorta o del tutto scollata dalla realtà in direzione psicotica. Accettare la realtà del paziente non significa colludere con un modello disfunzionale ma partecipare dall’interno allo stesso mondo del nostro paziente, “condividendolo”. E ciò non in termini di uniformazione passiva ma nel senso più letterale di “vivere con” il paziente, nella sua stessa cornice di riferimento.
“La prima cosa da evitare in psicoterapia è di cercare di costringerlo a cambiare la sua ideazione, bisogna invece mostrarsi in accordo con essa per cambiarla in modo graduale”
— M. Erickson, 1980
I terapeuti degli approcci tradizionali si limitano a supervisionare dall’esterno il modo di pensare dei propri pazienti, con la pretesa di modificarlo immediatamente: una volta individuati gli schemi disfunzionali ne rimarcano istantaneamente l’inadeguatezza e la disfunzionalità, facendo sentire il paziente incompreso e criticato.
Il terapeuta ericksoniano, invece, si cala al suo stesso livello e, muovendosi con il paziente nel suo modello di riferimento, sperimenta sulla sua stessa pelle gli esiti negativi del suo modo di vedere, sentire e percepire, portando il paziente ad una successiva e autonoma revisione degli schemi stessi.
“Troppi terapeuti cercano di rassicurare il paziente; cercano di privare il paziente della realtà dei suoi sintomi invece di accettare e lavorare con questa realtà) […] Molti medici dicono ai pazienti: ‘Non c’è bisogno che si preoccupi, non c’è bisogno di avere paura; non c’è proprio nessun bisogno di essere ansiosi […][Con questo approccio] State negando e rifiutando qualcosa che per il paziente è altrettanto reale di un braccio rotto: e senza dubbio, se fate sapere al paziente che avete per le sue paure, le sue ansie e il suo nervosismo altrettanto rispetto che per il suo braccio rotto o per la sua mascella, allora quel paziente si renderà conto che lo capite”
— M. Erickson, 1983
Fare a braccio di ferro con il paziente, disconoscendone la sua personale Weltanschauung e i sintomi che porta in terapia, non conduce a nessun risultato utilizzabile, al contrario inasprisce e distanzia ulteriormente la sua posizione dal terapeuta. Il risultato sarà un allontanamento e la ricerca di un nuovo terapeuta che possa autenticamente capirlo e lavorare su ciò che il paziente gli chiede. Un terapeuta da cui sentirsi compreso e riconosciuto, anche nella realtà, spesso effimera e fittizia, dei sintomi che lamenta.
Queste non sono che un assaggio delle caratteristiche del terapeuta ericksoniano. Non perdete il prossimo (ed ultimo!) episodio per conoscere tutti i segreti di questa affascinante figura.
Riferimenti bibliografici
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