La fobia della febbre è analoga alla paura dell'inconscio
Spesso l'incomprensibile e l'imprevisto, in quanto generanti incredulità, sono vissuti come momenti incoerenti e contraddittori che rompono una certa armonia preesistente.
Quando la coscienza riesce ad inglobarli, essa passa a un livello entropico inferiore, o più organizzato (l'entropia diminuisce), ma talvolta, come abbiamo detto, l'imprevisto è anche incomprensibile e allora l'incredulità permane, creando così un contrasto, un attrito fra la coscienza e l'inconscio (quest'ultimo sempre in connessione con l'universale).
Quando il fuoco si spegne
La febbre rappresenta tale attrito, sintomo della contraddizione tra queste due istanze, mentre la defervescenza a sua volta è la fine del contrasto, la sua risoluzione, il concludersi del rapporto dialettico fra vecchio e nuovo, l'avvenuta fusione dei due elementi che, come accade ai metalli nel crogiolo alchemico, hanno bisogno del fuoco per integrarsi l'un l'altro.
La coscienza, che ha il suo limite nell'adesso, può darsi allora pace e capire, in un processo che è insieme comprensione razionale ed emotiva, accettando di essere modificata e di modificare a sua volta e traendo dal nuovo assetto una maggiore forza e stabilità.
L'omeotermia tipica dei mammiferi sta quindi alla febbre come la coerenza sta all'incoerenza, al caos. Ma si tratta pur sempre di una incoerenza finalizzata, di un "atomo" di caos primigenio da cui è destinato a scaturire un briciolo di coerenza in più.
Potremmo dire che la febbre è il prezzo pagato per il salto antientropico verso una comprensione più allargata, l'incremento di calore (che rappresenta la massima degradazione di altre forme di energia dal punto di vista entropico) al servizio della vita.
Quindi incoerenza per coerenza, morte per vita, entropia per entalpia.
In definitiva l'omeotermia sembra si possa considerare come un simbolo corporeo della coerenza logica, sintomo di una vita più organizzata, più antientropica, come quella dell'uomo rispetto agli altri animali omeotermi. Questi ultimi, a loro volta, "esistono di più", ad esempio dei rettili o dei pesci, in quanto testimoniano la loro esistenza in maniera più "agguerrita", differenziandosi per un segno in più dall'ambiente che tende ad uniformarli a sé. Infatti il rettile non combatte come il mammifero per avere una sua continuità termica anche in condizioni climatiche diverse.
In questa visione, il processo febbrile è una specie di vita nella vita; infatti questo conflitto che avviene all'interno dell'individuo richiama la lotta per la sopravvivenza fra individuo e ambiente. Avere la febbre è un po' come vivere due volte: sembra che nell'organismo vi sia un'attività in più, un movimento di forze solitamente quiescenti. Di solito questa seconda vita interiore è inconscia e solo nelle grandi crisi febbrili sale in superficie, dando origine nel delirio a delle sovrapposizioni sensoriali che ripropongono la dimensione di incredulità cui abbiamo fatto cenno sopra.
La vita è imprevedibile
Quanto detto avviene, se pure in misura molto ridotta, anche quando non si è in presenza di una vera e propria febbre. L'effetto dell'impatto col diverso, con l'altro da sé è infatti continuo, anche se per lo più graduale e ridotto, traducendosi più che in veri e propri attacchi febbrili, in un succedersi di microalterazioni, il cui andamento complessivo assume l'aspetto della regolarità, dell'omeotermia. Sul piano psichico, del tutto analogamente, per piatta che possa essere un'esistenza, c'è sempre almeno un elemento imprevedibile e cioè l'esperienza della vita stessa. Prevedere la propria esistenza non coincide col viverla e questo costituisce un elemento di "alterazione", di attività irriducibile. Vivere la propria vita, per scontata e prevedibile che sia, costituisce di per sé un fattore di rialzo termico, se pur minimo. In ogni caso, nell'ordine naturale delle cose, il cambiamento, l'imprevisto, è sinonimo di vita, in quanto manifestazione antientropica che si contrappone alla staticità della materia inorganica. Se è in coerenza con la realtà circostante, l'uomo accetterà il cambiamento con maggiore serenità, senza responsabilizzarsi troppo, come una "correzione di tiro" didattica, per brusca che possa essere. Se è vero che la capacità di previsione in senso razionale risulta in questo caso minore, senza dubbio tale deficit viene compensato da una maggiore accettazione dell'imprevisto, ciò che può significare in realtà non tanto rassegnazione, quanto un entrare nell'ambito di una previsione più comprensiva, globale. E’ accettazione del mistero, cioè comprensione della comprensione, possedere lo scrigno in cui è racchiusa la chiave di tutto, anche dello scrigno stesso, che quindi non si potrà mai aprire.
Alice allo specchio
Ma l'imprevedibile viene anche avvertito come minaccioso, ostile ed estraneo, incombente ad ogni passo. E l'uomo, proprio nel tentativo di controllare l'imprevisto naturale e di sbarazzarsene, crea "universi a testa in giù", almeno dal punto di vista psicosomatico, assurdi come i fantastici mondi di Alice, creati da Lewis Carrol su precisi modelli matematici.
Quando l'artificiale e vuota prevedibilità che ne discende viene a mancare e, in questo mondo capovolto, irrompe il naturale, il prevedibile assume l'aspetto di imprevisto e viceversa.
La grande potenza su cui poggia la sicurezza umana è infatti un colosso dai piedi di argilla. Alcuni scienziati moderni anzi ipotizzano il collasso della civiltà attuale, facendo notare come la sua sopravvivenza abbia per condizione necessaria dei sistemi estremamente complessi, orientati verso una sempre maggiore complessità. La catastrofe può allora essere scatenata da particolari apparentemente insignificanti, come il guasto di un circuito, la distrazione di un addetto ai favori, la mutazione di un virus, ecc. L'equilibrio alla base della nostra civiltà assomiglia quindi molto a quello pericolosamente instabile di un funambolo. La paura che l'uomo oggi proietta sulla febbre sembra del tutto analoga a quella per l'imprevisto, per il caos, per il disordine, per l'inconscio, dal quale l'uomo sente perennemente insidiate le fragili difese della sua costruzione. La nostra cultura si è assunta quindi anche il compito di esorcista della febbre, considerandola come una vera e propria malattia piuttosto che come un sintomo.
Un esorcismo pericoloso
Si pensi solo all'abuso dei farmaci di ogni tipo, alla base del quale sta senza dubbio un atteggiamento psicologico di fuga dalla propria realtà interiore.
Tra l'altro, dall'incompatibilità rilevata a livello statistico tra malattie degenerative e attacchi febbrili acuti, nasce l'ipotesi di una rivincita terribile della realtà interna. Sembrerebbe cioè che chi tollera la contraddizione ed accetta il conflitto — somaticamente rappresentato dalla febbre alta — sia meno soggetto al cancro.
Certamente, confrontarsi con questo sintomo significa rinunciare a delle certezze, cui siamo assuefatti, e alla sicurezza della razionalità, per entrare nell'inferno dantesco del delirio, dell'inconscio, a conquistare nuovi tasselli per il nostro esistere. Un "tuffo" costoso e non certo indolore, ma è solo dal vitale confronto diacronico fra passato e futuro che può nascere continuamente il presente, l'istanza dell'Io. In certi casi tale sincresi è avvertita anche come molto pericolosa. Fred Hoyle in La nuvola nera, descrive la morte per febbre cerebrale del protagonista che, venuto a contatto con l'immenso ed onnisciente essere/nebulosa extraterrestre, non riesce a reggere le infinite verità che gli vengono rivelate, poiché esse, sovrapponendosi ai vecchi schemi, generano una contraddizione conflittuale troppo forte, fatale per lo sfortunato scienziato. Questo esempio può essere utile, perché concretizza i fantasmi di morte che spesso hanno solo la consistenza del nulla sartriano di cui l'uomo riveste l'avvento rappresentato dalla febbre.
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