La parola mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” che vuol dire assalire. Tale termine fu utilizzato per la prima volta da Lorenz per indicare il comportamento di un gruppo di animali, intenzionati ad escludere dalla comunità un membro della stessa specie. Agli inizi degli anni ottanta, lo psicologo Leymann usò la parola mobbing per rappresentare tutta una serie di azioni vessatorie, compiute da persone nei contesti di lavoro. Quindi con questo termine vengono messi in risalto comportamenti, osservabili in ambienti lavorativi, che hanno lo scopo di eliminare una persona “scomoda”, distruggendola sia psicologicamente che socialmente, tanto da spingerla a chiedere le dimissioni o da provocarne il licenziamento.
Il mobbing è stato definito dagli studiosi come un processo complesso e suddiviso in fasi. Ege, psicologo del lavoro, ne indica sei. Esiste una pre-fase, specifica della nostra cultura italiana, in cui il conflitto tra colleghi è considerato come una condizione fisiologica normale, determinata dal solo desiderio di emergere. Lo studioso considera questa situazione come preludio all’insorgenza del mobbing. Nella prima fase, il conflitto non è più generico, ma è rivolto verso una persona specifica e ha come obiettivo la sua distruzione; nella seconda il mobbing diventa sempre più manifesto. La vittima dichiara un forte senso di frustrazione per gli attacchi del mobber e chiedendosi il perché di tale comportamento; nella terza e quarta fase insorgono i primi disturbi psicosomatici (alterazione del sonno, problemi digestivi, etc.) ed il senso di insicurezza. A causa di questi disturbi, il mobbizzato si assenta spesso dal lavoro e, sebbene l’Amministrazione sia informata sul suo problema, si assiste a degli errori di valutazione da parte dell’Ufficio Personale. La quinta fase è quella della depressione che vede la vittima iniziare psicoterapie o terapie farmacologiche. Queste soluzioni spesso risultano quasi inutili dal momento che il problema al lavoro continua a persistere. In questo caso l’Amministrazione, non essendo a conoscenza del mobbing, prende dei provvedimenti inappropriati, che aggravano la condizione del mobbizzato. La sesta fase è quella del licenziamento, delle dimissioni, del prepensionamento, etc..
Ege ha anche spiegato il fenomeno del “doppio mobbing”, ossia quando la famiglia, dopo un lungo periodo di sostegno, non riesce più a sostenere l’aggressività e il malumore del proprio familiare mobbizzato. La famiglia lo colpevolizza per quello che sta accadendo e lo isola, mobbizzandolo di nuovo. Rispetto al fenomeno del “doppio mobbing”, War ha ipotizzato l’esistenza di effetti spillover bidirezionali, ovvero di percezioni e sentimenti presenti in ambienti lavorativi, che si ripercuotono in ambienti esterni e viceversa.
Esistono tre tipologie di mobbing: dall’alto verso il basso, ossia quando il mobber è in una posizione up rispetto alla vittima (es. dirigente, collega con anzianità, capufficio, etc.); tra parti, ossia tra due colleghi con pari mansioni; dal basso verso l’alto, quando il mobber è in posizione down rispetto alla vittima.
Non esiste una categoria universale che raggruppi le persone soggette a mobbing, perché chiunque può esserne vittima. Utile è il contributo della Huber che suggerisce quattro tipologie di persone particolarmente esposte a mobbing: una persona sola (es. l’unica donna in ufficio); una persona “strana” (stranieri, diversamente abili, etc).; una persona che ha successo poiché attira invidie e gelosie; una persona nuova.
Esistono due tipi di reazione del mobbizzato: una passiva ed una attiva. Nella prima un individuo non si rende conto di essere stato mobbizzato e continua a lavorare, finché non se ne rende conto. Questo tipo di reazione facilita l’insorgenza della depressione e rende una persona incapace di chiedere aiuto all’esterno. Nella reazione attiva un soggetto risponde in maniera tempestiva ai soprusi e chiede aiuto all’esterno. Solitamente questi individui tendono a cercare qualche collega che possa testimoniare la propria condizione di vittima di mobbing. Tuttavia questa impresa risulterebbe ardua, dal momento che il mobber è una persona che difficilmente agisce in pubblico, per il timore che gli altri possano accorgersi di ciò che fa.
Il mobber è una persona solita ad utilizzare l’aggressività, per trovare una soluzione ed è un individuo che in una situazione di mobbing si prodiga affinché lo stesso si intensifichi senza valutare il danno che si crea nella vittima. Spesso non mostra senso di colpa, anzi l’attribuisce agli altri.
Importanti sono anche gli spettatori, ossia tutti quei colleghi o superiori che, seppur non direttamente coinvolti, vivono il mobbing di riflesso. Esistono gli spettatori conformisti, che favoriscono la persecuzione di un collega non intervenendo, e gli spettatori fiancheggiatori o side-mobber che non agiscono direttamente, ma trasversalmente. Essi aiutano il mobber a distruggere la vittima più velocemente.
Esistono anche gli oppositori, ossia coloro che cercano di aiutare la vittima trovando una soluzione.
Il mobbing è “una pratica dannosa e realmente criminale”. I danni alla persona sono molti e riguardano la sfera psicologica e relazionale. Si osservano: alterazioni dell’equilibrio socio emotivo (ansia, depressione, fobie, etc.), alterazioni psicofisiologiche (disturbi del sonno e gastrointestinali, mal di testa, scarsa memoria, etc.); alterazioni del comportamento (disturbi alimentari, abuso di alcool, di farmaci, aumento di reazioni auto e etero aggressive).
Una persona vittima di mobbing perde la propria sicurezza e la propria autostima. Per questo motivo è importante chiedere aiuto a uno psicologo-psicoterapeuta, a un medico o ad uno psichiatra. Un aspetto fondamentale, seppur difficile, è quello di cercare di non cadere nella trappola dei sensi di colpa. E’ necessario parlarne e confrontarsi sia per ritrovare il proprio equilibrio psicologico e sia per raccogliere informazioni necessarie a pianificare adeguate strategie d’azione.
Sul piano legale potrebbe rivolgersi a un sindacato o ad un avvocato, specializzato in mobbing. Un aspetto importante da tenere in considerazione è che molto spesso procedere per vie legali, richiede uno sforzo emotivo e finanziario piuttosto grande e difficile da sopportare, soprattutto per un soggetto che ha vissuto un lungo periodo di mobbing.
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