IL COLLEGA “NARCISISTA” E IL MOBBING: QUANDO IL LUOGO DI LAVORO È TOSSICO

Sovente mi sono interessata all’ambiente lavorativo come realtà che può essere fonte di stress cronico, con conseguenze notevoli sul benessere globale, nel lungo termine – il lavoro occupa tanta parte della nostra esistenza, e se è vero che praticando una professione che si ama, seguendo la massima di Confucio, non si lavorerà “un solo giorno della tua vita”, è pur vero che tra le variabili di primaria importanza da valutare, soprattutto di questi tempi, è il luogo (fisico, ma soprattutto mentale) in cui si è.

E non di rado viene in mente un termine ben preciso: “tossico”.

È un aggettivo abusato sino a logorarlo, in un certo senso.

Ma lo trovo incisivo: esprime il diffondersi di un che di velenoso, dannoso, che rende l’atmosfera insana.

Anche il vocabolo “narcisista” è così sfruttato, di questi tempi, che rischia di perdere la sua connotazione di identificata realtà patologica, venendo diffuso a destra e a manca, senza seguire i criteri che definiscono questo disturbo di personalità.

Si deve però pur ammettere che, per quanto questa parola sia usata in maniera inadeguata, è comunque consona in questo articolo, dato che siamo in una società in cui non è certo una condizione inusuale da riscontrare.

La presenza di colleghi con tratti fortemente narcisistici – statisticamente, appunto, non così sporadica – crea un quotidiano difficile da gestire, divenendo fonte di mobbing, fenomeno subdolo, difficile da dimostrare legalmente, e di cui si sottostimano le conseguenze.

Il mobbing, che ha tanti volti differenti, ha acquisito negli anni attenzione, ma non ancora abbastanza ascolto.

Esserne vittima può drenare letteralmente; magari ci è costato impegno essere arrivati dove si è, in azienda, e comunque non sono tempi in cui si può pensare di trovare con facilità un’altra occupazione. Ne deriva, prima di tutto, nella persona che subisce mobbing (non solo di stampo narcisistico), un senso di impotenza: “Non posso andarmene, sono incastrato qui, sono preso di mira, ho il mal di stomaco e il mal di cuore appena mi sveglio, e questo posto me lo rimugino anche a casa, anche la domenica, con la mia famiglia”.

Un’impotenza che, a seconda di come avviene questo vile bullismo adulto, finisce per “intossicare”, appunto, la qualità della vita e, nel lungo, la stessa salute.

Che si tratti di mobbing verticale (praticato da chi nell’organigramma è in una situazione di vantaggio rispetto a noi) o orizzontale (attuato da chi è al nostro medesimo livello di carriera), oltre all’impotenza s’instaura un senso di profonda insicurezza sulle proprie capacità di farsi rispettare, di valere ed essere considerati.

Lo stillicidio fatto di episodi di mobbing conduce a un abbassamento dell’autostima e della percezione delle proprie abilità come professionista e come essere umano, soprattutto quando non si può contare in loco su una rete supportiva – come per il bullismo adolescenziale, l’essere isolati favorisce l’attacco del bullo e del suo gruppo.

“Sono non visto, da solo, incapace, vinto” – un’umiliazione che cresce, se non arginata.

Indubbio che questi agiti ci sono sempre stati e sempre ci saranno: il luogo di lavoro è competizione, si è accanto a persone variegate, che non si sono certo scelte per affetto, e che fanno parte di una dimensione dove piccinerie, invidie e frustrazioni altrui sono all’ordine del giorno, e non sempre si può contare su punti di riferimento empatici e leali, in sede.

Accade anche che si manifesti in maniera particolarmente infida, con azioni di stampo passivo-aggressivo, esercitate quindi senza fronteggiare, ma utilizzando l’esclusione da mansioni, il denigrare, l’accusare senza prove, l’offendere col sarcasmo e l’isolare.

Siamo progettati per la socialità e l’esclusione sociale, le neuroscienze ce lo insegnano, può provocare nel cervello l’attivazione di alcune aree sovrapponibili a quelle che rispondo al dolore fisico.

Essere isolati, separati dal gruppo circostante, fa male, se si tratta di un contesto significativo e in cui non è possibile operare se non attraverso l’interazione – è come rendere non solo meno produttivo il lavoro, ma anche letteralmente impedire che esso si possa svolgere.

E l’isolamento è solo una delle componenti.

Facciamo una sorta di lista di esempi di mobbing, non raramente abile a celarsi:

  • tendenza a procrastinare e “sabotare” progetti, rallentando il team con conseguente ritardo generale (più o meno conscio, talvolta legato a perdita di motivazione);
  • mansioni non assegnate malgrado le competenze, con la volontà di demansionare, con l’intenzione di sminuire;
  • sempre nell’azione di svilimento, si vede l’esclusione da eventi di gruppo cui sarebbe logico essere inclusi per via del proprio ruolo;
  • battute e umiliazioni sovente indirette, anche se fatte in modo che la persona colpita possa esserne ferita, non permettendo però all’individuo di affrontare, ribattere e farsi rispettare direttamente;
  • diffamazione (ad esempio la “smear campaign” narcisistica) per favorire il progressivo isolamento sia professionale che umano, talvolta accompagnato da un palese ignorare la persona;
  • continue critiche e lamentele, e totale mancanza di approvazione di ciò che viene svolto;
  • assenza di sostegno e di validazione dell’impegno dato nel proprio ruolo;
  • a livelli estremi possiamo anche trovare episodi di “gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica assai viscida e invischiante che porta la persona a dubitare persino delle sue percezioni, del suo contatto con la realtà e di sé stessa.

Questi sono alcuni esempi di come, sistematicamente, la goccia scava la pietra, lì, dove è la sede del nostro impegno, lì dove è quel lavoro che è dignità ed è dimensione necessaria alla nostra realizzazione sotto molti punti di vista.

E per quel che concerne il benessere globale?

In ottica di Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), che si occupa di studiare l’individuo considerando la sua interezza, la comunicazione tra i macrosistemi biopsicologici e la persona nella sua storia è contesto, è ovvio che una situazione così stressogena e perpetrata abbia effetti pervasivi.

È già noto come lavorare in ambienti “tossici” possa portare a classici sintomi psicofisici di sofferenza, da tachicardie a problematiche gastrointestinali e difficoltà nella capacità di concentrazione, che influenzano la nostra capacità di “dare il meglio”.

Ma questo è solo un aspetto.

Ansia e depressione possono subentrare, in una simile situazione che fa sentire “intrappolati”, lasciando chi sta soffrendo in un costante stato di hyperarousal fisico.

Hyperarousal significa “iperattivazione”, uno stato di allerta perpetuo e istintivo che scatta quando siamo esposti a pericoli; è un meccanismo antico per cui il nostro sistema nervoso autonomo, di fronte alla minaccia, prepara il corpo al “fight or fly”, ossia all’attaccare o al fuggire.

Ma qui i predatori non sono animali feroci da cui salvarsi per poi tornare alla calma.

Questo salvifico meccanismo primitivo, necessario, resta in un certo senso sempre “acceso a basso livello”, durante un’esperienza di mobbing, non permettendo mai uno stato di quiete anche biologica.

Ciò porta ad un’aumentata produzione di cortisolo (tra gli altri effetti ormonali dello stress), alla tendenza a sviluppare nel tempo ipertensione, ad essere accompagnati da un costante senso di pericolo e agitazione (questo nei casi più gravi). Un eccesso di cortisolo può creare problemi alla memoria e di certo, essendo l’ormone dello stress, non può che predisporre a quello che in PNEI si definsice “low grade chronic inflammation”, uno stato infiammatorio cronico. Esso non causa direttamente problematiche fisiche, e non si vuole ulteriormente spaventare il lettore, ma è proprio nello scorrere dei mesi e anni, che un background tale, protratto, arreca danno alla salute, contribuendo all’emergere di patologie croniche per cui si era già predisposti, ma che trovano terreno fertile nello stress prolungato.

Oggigiorno, nessuno negherebbe più, per esempio, il ruolo di stressor importanti nello sviluppo di patologie cardiovascolari.

Inevitabile anche, in chi subisce mobbing, lo sviluppo di problematiche del sonno, che si fa agitato, frammentato, insufficiente, con conseguenze anche a livello immunitario, oltre che cognitive, emotive e di “performance”.

Stiamo qui ovviamente valutando un ambiente lavorativo gravemente tossico, dato che pretendere che certe dinamiche non esistano del tutto, è purtroppo irrealistico.

Questa è una tossicità che si porta a casa, che si riversa sulle relazioni coi propri cari, sull’equilibrio con noi stessi, sulle prospettive per il futuro.

Dico sempre che, in ogni frammento del nostro essere parte del mondo, è importante crearsi uno “spazio sacro” proprio, una dimensione salvifica in cui proteggersi, nutrirsi, tutelarsi, e imparare a mettere dei paletti – è uno spazio davvero difficile, da creare, lo so, ma ne va della sopravvivenza, ed è un tempio nel quale nessuno può sporcare, perché nessuno può entrare, se non invitato.

Per quanto angusto sia la possibilità di azione, è importante utilizzare ogni risorsa per erigere il proprio spazio sacro, che faccia sì che tali dinamiche non arrivino a minare la salute e ciò che si è costruito.

Per questo si possono dare consigli, all’apparenza semplici, ma che possono avere un effetto massivo:

  • bisogna conoscere, come diceva Jung, le proprie “ombre”, i propri punti fragili, perché sono le ferite dove si può essere maggiormente colpiti, e in questo caso sono di solito connesse a dinamiche di bassa autostima e pregresse esperienze svilenti;
  • concedersi tempo e non essere giudicanti con sé stessi se non si riesce a prendere le distanze da tale situazione (è un processo impegnativo, e non è il caso di essersi nemici, quando già si è circondati da ostilità);
  • accettare le emozioni e i sentimenti che quello che si sta vivendo provocano, dare loro un nome, sentire cosa hanno da dirci;
  • ricordare a sé stessi il proprio valore, le proprie capacità, i punti di forza per cui si è riusciti a raggiungere risultati e superare ostacoli, quel nucleo solido per cui si sa essere stabili;
  • se certi atteggiamenti portano a una perdita di equilibrio interiore, questo racconta di fragilità del tutto umane, che anche i più coriacei possono avere, e ci permette di visualizzarle meglio e capire che vanno trattate;
  • è importante avere dei punti di riferimento con cui parlare, tra le persone care e di cui ci si può veramente fidare;
  • va considerato l’aiuto di un professionista della salute mentale, se il vissuto sta sfuggendo, in termini di reazioni, dal nostro controllo;
  • ricordare che, se non spinti dall’ottenere in maniera insana vantaggi, i modi di agire sopra citati sono praticati da persone immature, con un ego debole, che non sono capaci di empatia né di relazionarsi in maniera sana e matura, costantemente frustrati e perennemente infelici, e quindi la mancanza di valore appartiene a loro, non a voi;
  • se coloro che perpetrano il mobbing sono soggetti che potrebbero avere appunto tratti narcisistici, qualunque comunicazione adulta sarebbe inutile; ridurre quindi al minimo gli scambi, dando risposte minime che non tradiscono il sentire, e solo se inevitabile (“sì”, “non posso”, “certamente”, “va bene”); si parla di metodo “Grey Rock” quando si arriva, come dice la parola (“pietra grigia”), a porsi in maniera indecifrabile, distante, senza tradire emozioni, come un’assenza nella presenza;
  • non dare troppe informazioni di sé stessi, nel dubbio che si sia di fronte effettivamente a un collega narcisista, e non esplodere con rabbia e reazioni incontrollate (il “no contact”, l’escludere totalmente il contatto, sarebbe l’ideale, ma di difficile esecuzione nell’esercizio della propria professione);
  • pur non potendo negare l’importanza del lavoro, costruite all’esterno di esso, anche se avete poco tempo, un angolo in cui vi dedicate a un hobby, una passione, qualcosa che vi coinvolga, ricordandovi i vostri pregi, ciò che amate, chi siete. Fare progetti per sé evita il rimuginare, radica, dà una prospettiva sul domani ed è essenziale sempre;
  • se potete state nella natura, andate e provate a concentrarvi su ciò che vi circonda, meditate, fate del movimento, ascoltate musica, ridete (aiuta il sistema nervoso autonomo a ricalibrarsi in una modalità meno attivata e più tranquilla);
  • se siete a casa, in un posto sicuro, prendete consapevolezza di ciò che vi circonda, del vostro corpo, della stanza, del qui-e-ora, dicendovi “sono al sicuro”;
  • coltivate i rapporti con persone valide e di spessore, che sanno come state e con cui potete parlare.

Questi sono solo alcuni consigli, su una situazione pensata nella sua peggiore declinazione.

Ho preferito concentrarmi su questo tipo di panorama, poiché l’aspetto su cui bisogna lavorare, se non c’è una mano tesa da stringere che salvi, è sempre e comunque preservare la propria quiete interiore massima quando si è consapevoli di non avere torti.

Voi avete un valore intoccabile e, soprattutto, invalicabile.

Serve una lunga via psicologica per rafforzarsi in questo senso – ma si può fare.

È ciò che sosteneva il famoso psichiatra Viktor Frankl, sopravvissuto alla tragedia dell’Olocausto:
“Tra stimolo e risposta c'è uno spazio. In questo spazio si trova il nostro potere di scegliere la risposta. E nella nostra risposta si nascondono la nostra libertà e la capacità di crescere come persone”.

Voi avete il diritto di non farvi indebolire da bassezze che appartengono ad altri, se avete la sfortuna di avere questi soggetti sul luogo di lavoro.

Perché il lavoro è dignità.

E nessuno può togliere la dignità e un’altra persona, se non gli viene consentito.

Ci vuole sforzo, ma ciò si realizza nella libertà e nella crescita di uno spazio consapevole, “sacro” – il potere di scegliere la risposta, anche quando minima, perché sapete chi siete e quello che valete.

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