Il paziente obeso non è abituato a riflettere e agisce di impulso. Questa modalità, avida e ripetitiva, rimanda ad un mondo infantile. Come se ci fosse una parte che è rimasta piccola, che non viene riconosciuta, che lavora inconsciamente e che viene “agita” attraverso il cibo. Attraverso questa modalità si vuole esprimere qualcosa di indicibile. Sta nel lavoro con lo psicoterapeuta riuscire a tradurre l’atto in un significato.
Siccome si apprende dai modelli con cui cresciamo se la madre, nel suo funzionamento, ha nutrito troppo il figlio col cibo invece che con l’ascolto, il contenimento, dandogli attenzioni insegnandogli i limiti, riconoscendogli una identità separata, a sua volta il figlio affronterà le situazioni della vita attraverso il cibo, senza rendersene conto, perché quello è il trans generazionale che gli è stato passato.
Da una parte gli ha insegnato inconsciamente a soffocare i suoi bisogni emotivi attraverso lo stesso cibo, dall’altra lo ha deprivato della vicinanza emotiva che tanto chi soffre di obesità, ha bisogno. Sul un piano simbolico il cibo è l’elemento che compensa queste mancanze difficili da esternare a parole.
La negazione dei bisogni primari di dipendenza, ha portato, quindi, ad uno spostamento sull’oggetto cibo. Le emozioni, quindi, già vengono “agite”, più che raccontate, non si sa come esprimerle, perché il caregiver, nel mondo infantile, non era in grado di accoglierle.
La successiva formazione del proprio Sé sarà fragile, essendo mancato un pezzo fondamentale per la sua crescita, e la reazione ad esso dipenderà dalla forza dell’Io e dai meccanismi di difesa che si riusciranno ad usare in base alle proprie risorse.
Davanti ad eventi della vita importanti, ove le emozioni fanno da padrone, di solito l’aumento di peso è matematico, essendo l’unico modo che si ha per esprimere e reprimere ciò che si prova.
Da qui la difficoltà a poter chiedere aiuto diventa impossibile, sempre conseguenza del non accoglimento: “… se nessuno ha raccolto il mio bisogno emotivo allora dovrò sempre cavarmela da sola nella vita”, ma non avendo molte risorse emotive a disposizione il cibo diventa l’unica fonte a cui potersi aggrappare.
Il bisogno di essere accolto, accudito e compreso viene automaticamente negato, oppure connotato dalla lamentela di non trovare persone in grado di accogliere i propri stati d’animo, in quanto la scelta delle persone vicine di solito ricalca il bisogno rimosso.
Nella relazione con lo psicoterapeuta si ricalcherà proprio il bisogno rimosso: egli dovrà lavorare sia sul rafforzamento del Sé che dell’Io del paziente. Ponendosi “materno” ed accudente e facendo provare loro un’esperienza emotiva correttiva, e ponendogli dei limiti dove devono essere messi.
Non solo: dovrà incoraggiare il paziente nei suoi risultati, aiutandolo a trovare la sua strada nella risoluzione della problematica col cibo, tollerando le emozioni negative attraverso la creazione di meccanismi di difesa più funzionali, aiutandolo a tollerare sentimenti di incertezza e solitudine e fornendogli strumenti per analizzare la dinamica delle sue relazioni. Principale punto per cui poi si ricerca nel cibo l’elemento compensatorio.
Dovrà farlo lavorare sul pensiero razionale e stimolarlo a fare esperienza mettendosi alla prova per arrivare a frapporlo tra l’impulso e l’agito.
Accogliere e sostare in emozioni intense per imparare ad ascoltarle, accudirle, accettarle… così facendo anche la parte piccola di cui si parlava all’inizio potrà crescere appagando in modo differente, più funzionale quelle parti deprivate.
L’interiorizzazione del lavoro fatto e del terapeuta aiuterà il paziente a non utilizzare più l’unico rimedio che conoscevano, ovvero il cibo.
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