Gentile signorina Angela,
dalla sua descrizione, sembra aver avuto da sempre, come lei stessa dice, un problema di relazione, più o oltre, che di comunicazione, con gli “altri”. Da ciò che lei scrive si può percepire un sentirsi non accettata, inopportuna, fuori luogo, come dice lei – rende perfettamente l’idea la sua metafora del fare una battuta che nessuno coglie.
Eppure, sinceramente, rileggendo le esperienze che lei riporta, sembra che questa non accettazione del contatto con l’altro venga anche da lei.
Teniamo conto che al momento mi sto basando sulla sua sola comunicazione scritta che non può certo sostituire un incontro di persona, con tutto l’insieme di informazioni che il linguaggio non verbale veicola, col rischio magari che alcuni dettagli possano essere, da me in questo caso, mal compresi.
Ma fin dall’asilo, come lei riporta, lei litigava con gli altri bambini – non il contrario, lasciando così pensare che il “non ti voglio”, il “rifiuto” – mi passi il termine, così, per intenderci, partisse da lei - pur rimanendo così sempre sola a giocare.
Le medie poi, si sa, cadono in quel periodo dell’adolescenza in cui sono sentiti molto importanti sia il confronto con il gruppo dei pari che un certo bisogno di conformismo, proprio per quel bisogno di rispecchiamento “nel gruppo” tipico dell’età. E’ esperienza triste ma piuttosto diffusa, e mi pare lei rientrasse in questa situazione, essere o sentirsi estromessi dal “gruppo” quando non si rispettano determinati canoni (richiesti dal gruppo) sia estetici che di comportamento – abbigliamento “giusto”, comportamento “figo”, ecc.
Lei sembra addebitare però al bullismo degli altri la comparsa dei suoi attacchi di panico in quegli anni, specialmente, lei sottolinea, in circostanze come il primo giorno di scuola.
Mi viene da chiedermi: se era il primo giorno di scuola, dopo le vacanze estive – se ho ben compreso le sue parole, s’intende – quindi prima che le angherie e il bullismo si ripresentassero, la sua reazione da panico comunica – si, i nostri sintomi comunicano, quindi possiamo subito smentire il fatto che lei non comunichi, semmai lo fa in un modo non immediatamente evidente – un suo rifiuto all’idea di tornare in mezzo a tutti quei ragazzi, una specie di “non ti voglio” (di nuovo) espresso stavolta non a parole o con litigi, come all’asilo, ma con un ritiro, una chiusura, fino allo svenimento, che rappresenta il ritiro drastico del nostro “essere in una determinata situazione o realtà”.
E - continuando a seguire passo passo la sua descrizione - quale situazione è più intima dei rapporti sessuali. Situazione in cui, nel suo caso, di nuovo, si è manifestato sia il panico che lo svenire, quindi prima la paura dell’incontro, in questo caso, dell’intimità, e poi il ritiro fisico da essa.
Solo un paio di volte, dice lei, certo, ma sarebbe interessante chiedersi perché proprio quelle due volte in particolare: stava forse succedendo qualcosa di particolare, di diverso, rispetto a situazioni simili? Le lascio la domanda aperta, semmai come spunto di riflessione per lei stessa.
Dice poi di essere riuscita “ad eliminarli quasi completamente”, un bene, certo, ma c’è riuscita controllandosi, non superandoli, come dire che lei ha imparato a conviverci in qualche modo, il che ripeto è buona cosa, ma il problema che li originava e chiaramente anche lei lo percepisce, è ancora lì. E del resto dubito altrimenti lei avrebbe inviato la sua gentile comunicazione se così non fosse.
E dato che crescendo arriviamo ad una maggiore consapevolezza di noi stessi, ecco che lei a questo punto dice “quando ho troppa gente intorno non riesco a starci e mi allontano”. Ancora il “non ti voglio” di quando era bambina?
Cosa prova, mi chiedo, in quei momenti. Ansia, probabilmente. Ma quale stato d’animo, quale sensazione: senso di invasione? Come di soffocamento? Di sovraccarico emotivo (troppi stimoli e troppe persone diverse da gestire tutte insieme)?
A scuola non riesce a dividere le cose da fare, parliamo in epoca recente, mi sembra di capire, vorrebbe fare tutto lei, a modo suo e si arrabbia tantissimo, quasi da piangere, perché non può farlo. “Non posso”, dice, non “non riesco”. Non può, quindi, perché ci sono questi altri che con la loro “inopportuna” – per lei stavolta – presenza, glielo impediscono e le tocca dividere con loro le cose da fare.
Forse ora, parlo di adesso che ha potuto farsi degli amici con cui qualche volta esce, sta sorgendo in lei il bisogno di aprirsi maggiormente, di incontrare nuove persone, ed è anche il momento in cui più forte sta sentendo il suo problema, tant’è vero che sta chiedendo aiuto.
Ma è qualcosa che – sempre forse – lei si pone ora come cosa da fare, quasi la conoscenza reciproca fosse un obiettivo da raggiungere, non un piacere da condividere. Ed ecco che lei, combattuta tra la voglia di aprirsi da una parte e il suo vecchio “non ti voglio”, che a quanto pare la accompagna da tutta la vita dall’altra, si agita, va nel panico e non spiccica parola.
E’ chiaro che lo stare da sola per lei sia diventata una specie di oasi di tranquillità in cui si sente libera di fare e di essere. Ma è proprio questa oasi, a mio modesto parere, che, consolandola e gratificandola, rischia anche di isolarla sempre più e farle sentire sempre più intensamente il suo bisogno di comunicare e la sua separatezza dagli altri.
Non lo è diventata così, dice, da quando lei ha memoria si è sempre vissuta in questo modo.
E prima di quando lei ha memoria?
Mi chiedo, tornando indietro nel tempo, prima ancora delle sue esperienze all’asilo che lei riporta, come e dove sia potuto nascere per la prima volta questo suo “non ti voglio”, che sembra una risposta che si ripete nel tempo in presenza di una troppo pressante presenza di altri accanto a lei.
Sto cercando di dirle, in breve, che questo suo “non ti voglio”, nato probabilmente come difesa in risposta ad un vissuto di invasione dall’esterno, rischia ora di diventare quel muro dietro cui tutti gli altri esistono ma irraggiungibili, incomunicabili per lei.
Le auguro di incontrare qualcuno che, lentamente e con tutta la delicatezza e la calma di cui lei ha bisogno, le permetta di sentire la presenza dell’altro non come un peso ma come il piacere da con-dividere che dovrebbe essere.
Sperando di esserle stato chiaro e di aiuto, cordialmente la saluto.