Il rapporto del soggetto con la propria sofferenza psichica è cambiato nel corso degli anni e, più precisamente, con le nuove frontiere della psicofarmacologia. I farmaci di nuova generazione, sempre più specifici nel trattare la particolarità della psicopatologia, hanno assunto rapidamente un significante nuovo e potente nella cultura odierna. L’ oggetto farmaco assume le sembianze dell’altro curante, dell’altro a cui il soggetto delega la responsabilità della propria cura e del proprio benessere. I dati ISTAT sul trend del consumo degli psicofarmaci in Italia illustrano come nel corso degli ultimi anni si sia verificato un netto aumento delle persone che scelgono la cura chimica. Questa scelta non è, comunque sia, sorprendente; il farmaco risponde pienamente alla richiesta del soggetto in questo preciso momento storico ed economico: una cura efficace, immediata e senza sforzi.
Non è un caso che ci sia un vertiginoso aumento dei disturbi di origine ansiosa dove, per l’appunto, l’immediatezza della cura è la domanda privilegiata del soggetto sofferente. L’imperativo moderno della nostra cultura del ‘’tutto e subito’’, si riversa irrevocabilmente anche sulla pretesa della propria salute senza che il soggetto si metta nella posizione di protagonista responsabile della propria guarigione. Il farmaco accorre quindi all'appello del soggetto moderno legandosi ad esso in una relazione di dipendenza viscerale. Dov'è finita la parola? La pratica dell’uso della parola terapeutica è inevitabilmente sulla via del tramonto, incapace di rispondere all'immediatezza economica moderna. Il soggetto stesso svilisce la forza della propria parola, della propria verità soggettiva difronte alla potenza divinizzata del farmaco. L’essere chiamato alla responsabilità nei confronti di un sapere che è alla base della propria sofferenza è diventato obsoleto, dissolvendo nella chimica i principi della psicologia secondo i quali ogni persona è unica, irripetibile, particolare.
Se è vero che ogni persona ha il valore di unicità, allo stesso modo l’approccio terapeutico deve essere unico e puntare a svelare la verità inconscia dell’individuo che soffre. Il farmaco, a differenza della parola, non ha questo carattere di unicità ma punta alla standardizzazione, all’uniformismo, all'uno per tutti anziché all'uno per uno. In sostanza il soggetto moderno preferisce tappare il buco della sofferenza che cela la domanda ‘’perché soffro?’’ con la risposta immediata del farmaco anzi, con il dono del farmaco che assume così l’invito irresistibile del ‘’lasciati curare’’. Possiamo però considerare questo un vero e proprio processo di cura per il soggetto? Possiamo definire il farmaco terapeutico se, in sua assenza, la sintomatologia torna ad emergere e spesso più forte di prima? Beninteso che entrambi gli approcci sinergicamente hanno un’efficacia indiscutibile ma è impensabile che uno, quello farmacologico, si sostituisca alla parola del soggetto per due motivi: primo, perché non c’è esperienza umana che non sia esperienza di parola; tutto il nostro mondo è fatto di parole, alcune che rimangono impresse nella nostra memoria e che ci hanno segnato. Secondo, perché si è sempre dato alla parola un potere magico: la religione lo sa bene, ed anche la medicina. Nonostante i tempi siano cambiati, il modo di vedere e di approcciare alla sofferenza psichica sia cambiato drasticamente nel corso degli anni, la parola, come diceva Sigmund Freud ‘’ha conservato ancora oggi molto del suo antico potere magico.’’.
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