Oggi si sente spesso, dalle persone intorno a noi, parlare della difficoltà incontrate in campo lavorativo, affettivo, interpersonale.
Potremmo, per usare una sola parola, parlare di difficoltà nell’autorealizzazione e autodeterminazione. Altrettante, osserviamo il puntare il dito verso l’Altro, verso la società, verso i politici, verso i familiari amici e parenti, insomma, sembra che, in buona parte, i responsabili delle nostre difficoltà debbano essere rintracciati nelle figure che abbiamo intorno o nel contesto nel quale viviamo e lo spostare il vertice di osservazione verso di noi ci fa sperimentare rabbia.
Se non si supera questa rabbia, se non si riesce a sopportare questo profondo senso di frustrazione, di disillusione non si potranno mai cambiare le sorti del nostro destino, non si potrà mai partire di fatto da quello che siamo. È indiscutibile quanto ci sia alle basi della nostra identità di intimamente e costitutivamente di interpersonale, non viviamo come monadi ma ci costruiamo la nostra identità con gli altri significativi, a partire dalle figure che ci accudiscono sin dai primi momenti di vita. Quindi non è mia intenzione svalutare il ruolo della co - costruzione sociale interpersonale nella determinazione dei valori e significati individuali. Ma è vero, pure, che siamo anche qualcos’altro.
Qualcosa di noi, giorno dopo giorno, si convalida, si struttura, acquisisce maggiore coerenza e forza. Parlo di un insieme complesso di valori, bisogni, ideali, ed un bisogno crescente di sentirci riconosciuti in qualcosa di peculiare, di specifico, che ci rispecchia e ci differenzia da tutti gli altri.
Secondo autori come Beebe e Lachmann il sistema umano è a tutti gli effetti un sistema complesso. Un sistema in grado di auto mutuo regolarsi attraverso l’interazione con altri sistemi. Attraverso questi scambi i sistemi conseguirebbero maggiore coerenza e capacità autoriflessive.
Se da una parte lo scambio intersoggettivo è qualcosa di fondante ed inevitabile, dall’altra, proprio attraverso lo scambio e alle funzioni autoregolative emergenti dallo scambio, si consoliderebbe un sé, sempre più complesso e dotato di un senso e finalità proprie.
Senza, quindi, mettere in discussione il peso del Reale sulle nostre esistenze, credo sia opportuno, al fine di non alienarci in un mondo che diviene altro da noi e irraggiungibile, riconoscere quanto di noi poniamo nella realtà , inconsapevolmente, al fine di sostenere un’identità possibile.
Spesso, come raccontano con le loro storie molti pazienti fuori da aspettative disfunzionali e prospettive nichiliste sembra non esserci un senso possibile. A volte è l’avere successo, il raggiungere la serenità, l’intimità ad essere vissuto come qualcosa di incompatibili con l’idea che, inconsapevolmente, difendiamo strenuamente di noi. Fuori da quella, sembra non esserci un senso e viene seguita, nonostante la sofferenza e l’insoddisfazione, come l’unica possibile.
Se, ad esempio, raggiungere l’autonomia, il benessere è associato (ad esempio tramandato da ”mitologie familiari” ) in modo inconsapevole all’essere avidi, egoisti, superficiali e colpevoli, di fatto il soggetto nella sua condotta di vita auto saboterà tutte le opportunità di crescita e di successo.
Probabilmente cercando un senso nel mal funzionamento del modello culturale di appartenenza o attribuendo all’Altro l’onta di essere egoista o troppo individualista. Quando atteggiamneti di questo genere divengono impliciti e si strutturano rinforzandosi in uno stile di personalità, il soggetto sarà destinato, nonostante la sua consapevole sofferenza, all’insuccesso, e rischierà di consegnarsi ad un’invidia cronica e precludente le possibilità trasformative ed autorealizzative.
Se è l’Altro ad avere tutto io posso solo rivendicare , in modo richiedente ed oppositivo, che mi sia riconosciuto qualcosa. L’Altro diviene così sempre più Altro e potente, noi sempre più piccoli ed arrabbiati.
Come uscire da un’impasse del genere ed aprirsi all’autorealizzazione psicologica, sociale ed economica? A mio avviso la risposta risiede nella relazione terapeutica, ossia nell’analisi della relazione analitica e del campo psicoanalitico co costruito insieme all’analista. Il processo di “de – alienizzazione” , ossia quel movimento attraverso il quale ritorniamo a noi, riprendendo quanto di nostro abbiamo posto al di fuori, negli altri, nel sociale, in un immaginario fuggevole e intrinsecamente frustrante, è un processo lento, spesso doloroso in quanto vengono a essere messi in dubbio modalità e stili consolidati del soggetto di esperienza nel tempo. Modalità nelle quali ci riconosciamo e attraverso le quali riusciamo a rimanere in contatto con gli altri significativi, nonostante siano diventate nel tempo inadeguate, sterili, non in grado di assecondare il nostro desiderio di crescita.
Proprio di questo circolo vizioso ci parla il sintomo: se da una parte ci riconosciamo inconsapevolmente in impliciti fondanti un’identità alienata e disfunzionale , e non possiamo pensarci diversamente, dall’altra ne soffriamo, poiché qualcosa di nuovo emerge, qualcosa che ci chiama alla vita e ci mostra come qualcosa non funzioni più, o che, comunque, il prezzo che stiamo pagando sul campo dell’autorealizzazione è troppo alto per essere ancora sostenuto a lungo. Ma purtroppo spesso al sintomo si risponde incrementando modalità difensive “identitarie” ossia rifugiandoci ancora nelle vecchie modalità alimentando così ricorsivamente la sintomatologia.
Spesso nel “ritornare dall’oggetto” ossia nel riappropriarci di ciò che ci appartiene ma che difensivamente vedevamo nel mondo si prova rabbia e disorientamento, ci si sente inascoltati e soli. Lasciare i propri chemi di funzionamento psichico ci fa sentire nudi ed espropriati di qualcosa nel quale crediamo. La nostra autostima traballa, la rabbia e la vergogna iniziano a farla da padrona.
Con il tempo, in un clima coerente e sicuro quale il setting analitico è possibile ridefinire le impalcature identitarie dalle quali guardavamo il mondo, un mondo che visto con uno sguardo nuovo può ora offrirci molte opportunità precedentemente impossibili da cogliere.
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