“Disabilità: dalla famiglia alla società”
La disabilità è un terremoto emotivo che cambia per sempre la vita dei genitori.
La disabilità è un evento critico che irrompe violentemente nella vita di una famiglia, modificandone gli assetti mentali, emotivi e relazionali.
Dall’iniziale negazione della realtà, all’accettazione della disabilità, la strada è lunga e faticosa e non sempre si giunge all’accettazione. Molti genitori galleggiano nella rassegnazione: “dobbiamo conviverci”.
Cosa diventerà la famiglia, dopo la scoperta della disabilità, dipenderà dalla struttura di personalità dei componenti la coppia genitoriale e dal contesto socio-affettivo di riferimento.
Dipenderà dai confini di personalità.
Tra tutti gli eventi critici evolutivi, che si riscontrano in tutti i nuclei familiari, quello della disabilità è il più difficile da metabolizzare.
Fino agli anni 70 la reattività delle famiglie con disabilità era quasi una scelta obbligata: nascondersi e nascondere il figlio disabile, il che significava anche occultare la colpa e la vergogna per aver generato la patologia.
La disabilità è una ferita al nucleo familiare, tanto più profonda quanto più rigidi sono i confini di personalità. “Perché proprio a me?“ continuano a chiedersi, “cosa ho fatto di male, per meritarmi tanto?”. Dentro queste frasi c’è la visione e il senso della disabilità, c’è la posizione esistenziale. “Poverino” è l’aggettivo più comunemente utilizzato, quando si fa riferimento ad un disabile.
È la costruzione del “senso della disabilità”, che determina gli atteggiamenti relazionali della famiglia, ma che a sua volta risente del clima culturale del periodo storico.
Vediamo alcuni esempi:
- La disabilità come evento catastrofico: “nulla potrà essere più come prima”. Famiglia distrutta, frantumati i suoi legami affettivi interni e sociali. I componenti non riescono a darsi sostegno.
- La disabilità come punizione. Famiglia piena di sensi di colpa, si attribuisce la responsabilità dell’accaduto e non riesce a perdonarsi. La reazione può essere la rabbia o la depressione.
- La disabilità come volere divino, come prova, come disegno superiore.
- La disabilità come diversità umana. Questa è la visione più corretta, quella che apre le porte dell’accettazione.
Non tutte le famiglie giungono ad attraversare il “ciclo di elaborazione della sofferenza” le cui fasi sono:
- Negazione della realtà
- Rabbia.
- Contrattazione.
- Depressione.
- Accettazione.
Molte rimangono imprigionate nella fase della rabbia, autoalimentata da frasi tipo: “perché proprio a me? Cosa ho fatto di male. Meritavo tutto questo?”
Sono quei genitori che si attendono un risarcimento dalla vita. Ma lo sportello della vita dove poter reclamare, non esiste.
Altre si bloccano nella fase depressiva: “non ha più senso niente, tutti i giorni sono uguali”
I progressi del figlio disabile sono una gioia più per l’operatore o per l’insegnante di sostegno, che non per loro. Hanno fatto del dolore il loro tema esistenziale. È difficile far capire che c’è sempre un “oltre”.
Altre ancora nel fatalismo “Dio ha voluto cosi, sia fatta la sua volontà”. Qui abbiamo la delega del dolore, ma anche la delega alla riabilitazione del figlio.
Queste sono tutte condotte di evitamento del dolore, manovre per non attraversare o lasciarsi attraversare dal dolore, che è l’unica via per giungere all’accettazione.
L’evoluzione culturale della disabilità è contenuta nella terminologia utilizzata, sia per descrivere il fenomeno sociale che i provvedimenti legislativi. Siamo partiti dal termine Handicappato, cioè deprivato, svantaggiato, siamo transitati dal termine Disabile, per giungere ultimamente a “Persona con disabilità”, come dire: ricordiamoci che dietro c’è sempre una persona. Il percorso è stato dalla centralità del deficit, alla centralità della persona.
Alla fine degli anni 70, arriva la Legge 517/77, una vera e propria rivoluzione culturale dei rapporti tra persone con disabilità e persone senza disabilità, che prendeva le mosse dall’inserimento dei disabili nelle classi normali. Una Legge che ha sancito i diritti e tutelato la qualità della vita dei disabili.
Per un po’ ci si era illusi che questo importante cambiamento culturale potesse radicarsi permanentemente nel tessuto sociale. Per un po’ si era pensato che la disabilità potesse veramente appartenere alla società tutta e che tutti avremmo potuto darci una mano. Senza lasciare indietro nessuno, avremmo potuto cooperare per la realizzazione di una nuova sensibilità sociale.
Poi, caratteristica del Popolo Italiano, la tensione progettuale per le novità è diminuita e l’attenzione sociale lentamente è andata scemando. All’orizzonte si affacciava minaccioso il fenomeno, a tutti noto, dell’emergenza educativa, cosi la disabilità è tornata ad essere unicamente un patrimonio delle famiglie coinvolte.
A lottare per i diritti dei disabili sono rimaste le associazioni dei familiari e i disabili stessi.
La società è cambiata, è diventata veloce e stressata, è diventata una società in cui ci si afferma con l’arroganza, la prepotenza e la seduzione, armi che poco hanno a che fare con la disabilità.
I “tempi della disabilità” non possono coincidere con i tempi di questo tipo di società che stenta a conciliare anche i “tempi dell’educazione”.
Come si organizza la scuola è cosa nota. Sono note le prassi istituzionali che vanno dalla richiesta della certificazione all’assegnazione dell’insegnante di sostegno.
Quello che manca è un coordinamento dei genitori degli alunni certificati. Manca un luogo di elaborazione del disagio familiare che si modifica con la crescita del figlio, manca il luogo dove ci sia spazio per la narrazione, l’ascolto la progettazione.
La funzione dell’insegnante di sostegno è sempre stata ampia, non poteva limitarsi solamente ai processi di apprendimento possibile, l’insegnante di sostegno è il mediatore tra l’alunno disabile e le cose della vita, che vanno dalla percezione della diversità all’impossibilità ad agire come gli altri, dal far fronte al senso di esclusione e di emarginazione all’innamoramento, dai sogni alle passioni, alle delusioni. Gli alunni con disabilità di certo hanno meno “tempo personale”, quel tempo per essere ragazzi, adolescenti e giovani, il tempo della trasgressione e della ribellione, il tempo per essere “cuore di cane” come tutti gli altri adolescenti. Il tempo della vita per loro rischia di diventare una organizzazione e una ritualità finalizzata all’ottenimento di un minimo di autonomia personale.
Il “tempo liberato” in cui si sta assieme per lo stare assieme, esiste per l’alunno disabile?
L’impressione è che ogni cosa che fa la persona disabile sembra essere una prova, un dover mostrare agli altri che nonostante tutto lui è in grado di……..
Se la disabilità appartenesse a tutti noi, se la persona con disabilità fosse veramente uno di noi, saremmo tutti più felici.
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