La Formazione è una pratica sociale sempre più diffusa che coinvolge ormai sistemi diversi : la formazione “istituzionale” (quella programmata e finanziata dallo Stato, dalle Regioni, dalle diverse istituzioni pubbliche), e che viene realizzata dalle Università, dai Centri specializzati, dalle Scuole. La formazione “aziendale”, quella programmata dalle singole aziende é molto spesso finanziata dalle strutture suindicate e gestite, o in proprio, o da Istituti o da Società di Consulenza altamente specializzati. La formazione “privata tout court” è tutto quel vastò insieme di iniziative che i singoli istituti acquistano a pagamento da Centri, società, Enti e che vanno dai percorsi paralleli a quelli scolastici tradizionali, ad iniziative post - diploma o post -laurea (master), a corsi di formazione a distanza on line (FAD).
Come in tutti i mercati in forte espansione, l’esplosione della domanda di formazione ha trascinato con sé una crescente richiesta di servizi destinati alla formazione, più o meno avanzati. Uno di questi servizi, è senza alcun dubbio, quello “psicologico”, intendendo con ciò i vari tipi di supporto che possono provenire al “fare formazione” da competenze di tipo psicologico. Tuttavia, il “fare formazione” si può concepire come un ciclo di produzione strutturato da una sequenza di eventi specifici : programmazione e pianificazione, analisi del lavoro, individuazione dei fabbisogni formativi, reclutamento, analisi e selezione dell’utenza, progettazione, programmazione didattica, coordinamento e realizzazione, controllo e valutazione, promozione, marketing e commercializzazione. Queste che ho indicato sono le fasi principali di tale ciclo, e per ciascuna di esse il “servizio psicologico” viene investito in competenze diverse e specifiche. Un primo caso di crescente domanda di competenze psicologiche riguarda la fase di “selezione e orientamento dei partecipanti” alle iniziative di formazione. Ormai, non esiste iniziativa di formazione, a qualsiasi tipologia appartenga, che non preveda uno screening in ingresso, anche per banali motivi di squilibrio tra domanda e offerta. Cosa si vuole valutare ? Con quali tipi di strumenti? A quali modelli o teorie di riferimento sono connessi ? In questo tipo di “pratica sociale” l’elemento che si cerca di focalizzare meglio è quello della “motivazione”. Spesso, vi è il tentativo di individuare “attitudini” generali o specifiche ( per determinati tipi di lavoro, di collocazione lavorativa o di pratica professionale). Infatti, si tenta, per esempio, di cercare il grado di “attitudine all’imprenditorialità” o “l’attitudine al lavoro di gruppo”, o ancora “l’attitudine a lavorare in ambiente informatico” ecc. Secondo il procedimento classico, inoltre, gli iscritti al corso di formazione, sono molto più numerosi dei posti disponibili, quindi il primo screening avviene discriminando in base a prerequisiti di conoscenze specifiche (di argomento professionale) o di conoscenze generali. Se da una parte, “il colloquio” è da sempre lo strumento più usato per operare un’analisi accurata, è comunque crescente l’utilizzo dei “reattivi psicodiagnostici”. Ciò avviene in un contesto in cui si sta diffondendo l’utilizzo diretto di tali strumenti da parte di operatori con specifica preparazione professionale o utilizzando l’appalto di strutture esterne ( società di consulenza o singoli professionisti ), nell’ambito di un rapporto di sostanziale delega e, senza ulteriori validazioni o verifiche degli strumenti e delle procedure. Ora, sull’utilizzo dei test psico-attitudinali nella selezione finalizzata all’inserimento non in posizioni di lavoro, ma in corsi di formazione occorre cautela per due motivi. Da un lato, per il rischio, evidente di fondare il giudizio su requisiti e competenze che proprio il corso dovrebbe attivare, modificare o integrare e, per l’eccessiva diffusione di un pregiudizio “fissato”, secondo cui le persone sono quelle che si conoscono in un determinato momento e non sono concesse loro evoluzioni possibili. Dall’altro lato, perché è sempre meno chiaro quali debbano essere i requisiti di competenza, conoscenze, abilità, atteggiamento delle diverse figure professionali: in realtà, il lavoro cambia continuamente e rapidamente e nelle aziende non si trovano “profili professionali” (che sono astrazioni ad uso formativo e contrattuale), ma i diversi ruoli sono già concretamente configurati. Tutto ciò, unito alla considerazione che la “selezione tramite test” si è rivelata spesso inefficace (con bassissime correlazioni) tra valutazione attuale e riuscita sul lavoro. Se è pur vero che il problema di cui si tenta una risposta attraverso la selezione è un problema reale ed è prevedibile che rimanga tale ancora per molto tempo, è altrettanto vero che oggi tali risposte non sono efficaci e convincenti. Sulla base di queste considerazioni, si potrebbero individuare alcuni ambiti di sperimentazione desiderabile : la selezione ed i suoi strumenti (con particolare riguardo ad un utilizzo discreto e controllato dei test) , le risorse del colloquio, il rapporto organico e strutturato dell’attività di selezione con le attività in informazione, in orientamento, e in progettazione formativa; la valutazione longitudinale dell’efficacia della selezione attraverso banche-dati; la riflessione su modalità di certificazione delle abilità individuali che possano, al limite, sostituire certe forme di selezione; la sensibilizzazione e la formazione dei soggetti-attori, oggi troppo spesso “lasciati a sé”. In particolare, gli enti pubblici tendono a farsi carico dell’onere di sperimentare in aree tematiche circoscritte e controllabili coinvolgendo centri di formazione specializzati, esperti che sviluppino apprendimenti nei soggetti-attori già presenti nell’istituzione. In assenza di iniziative pubbliche, si possono considerare alcune iniziative private - che si sono già ripetute e sperimentate, da costituire l’abbozzo di un modello operativo di assessment - che tentano un mix tra esigenze di selezione da un lato, e opportunità di auto-orientamento dall’altro, in un percorso strutturato di alcune giornate in cui il “colloquio individuale” costituisce il punto di arrivo di un processo di interazione tra selezionatore e gruppo dei candidati; processo in cui si ritrovano dimensioni di informazione, di verifica della motivazione individuale, di recupero delle risorse personali, di auto-diagnosi del potenziale, di valutazione delle capacità individuali ritenute importanti.
Un secondo caso di crescita della dimensione psicologica nell’ambito del “fare formazione” è riscontrabile nell’analisi del lavoro, e in particolare nell’analisi delle competenze sottese i compiti che caratterizzano determinati ruoli professionali. È pratica ormai diffusa tra i formatori esplorare le competenze professionali connesse con la posizione di lavoro in ciò che un determinato individuo deve essere in grado di “sapere, saper fare, saper essere” nell’esercizio del suo ruolo; ciò dal momento che le competenze sono proprio l’insieme integrato di conoscenze, abilità operative ed atteggiamenti espressi in termini di comportamento. Attualmente, l’arte del “saper essere” aumenta la sua importanza relativa rispetto all’area del “saper fare”, in un contesto in cui tra l’altro, “sapere” è di per sé, sempre più, “saper fare”.
In questo contesto, le esigenze formative della persona sono sempre più indirizzate verso l’area del sapere (conoscenze astratte e formalizzate, logiche di base ecc.) e del “saper essere”: quindi, si rafforza la richiesta di apporti conoscitivi di tipo psico-sociale. Tutto ciò concorre a determinare il contenuto di questa area (il saper essere), in modo ancora estremamente aleatorio quando non arbitrario, perché, dipende in ultima analisi, dal grado di “cultura” e di autocontrollo di chi compie il lavoro di scomposizione analitica della professionalità. Infatti, da una parte ciò può derivare dalla effettiva difficoltà in cui si trova il dibattito teorico-scientifico in merito a questa dimensione, dall’altra anche in questo ambito le pratiche sociali (spinte dalle esigenze e dalla necessità di rapida risoluzione dei problemi a fini operativi) si moltiplicano e si diffondono, in un quadro di grande disomogeneità e di frammentazione.
Non si vuole ipotizzare una visione iper-razionale, o “governata” dei processi sociali, tuttavia, è certo che tra il “fai da te” che ciascuno dei soggetti in campo è costretto a realizzare, esiste tutta una serie di posizioni intermedie, rispetto alle quali il contributo che può venire da uno sforzo congiunto dei soggetti indicati in riferimento al problema della selezione, potrebbe avere positive ricadute sull’attività formativa realizzata. Attualmente, il sistema di formazione professionale è da qualche tempo percorso da una tensione (che si va diffondendo) alla trasformazione da tradizionale “centri di formazione professionale” in “agenzie formative orientate ai bisogni”, in dialogo costante col territorio, dotate di professionalità organizzata e gestionale e, volte ad erogare prodotti e servizi sostanzialmente su misura. Tale tensione è all’origine di alcuni progetti di enti pubblici e di enti di formazione professionale aventi come obiettivo quello di individualizzare nuovi modelli organizzativi per i Centri, tali da favorire la trasformazione nell’auspicata “Agenzia”. Si tratta, in realtà, di un normale intervento di cambiamento e di sviluppo organizzativo, anche se in un contesto di rete ( di soggetti istituzionali, sociali ecc.) che lo rende particolarmente delicato e complesso : la parte interessante da considerare è la quasi assoluta mancanza di una dimensione “psicologica” nell’analisi propedeutica alla riprogettazione. Questa dimensione del problema non rientra , di norma, nel “problem setting”: per esempio, l’atteggiamento dei responsabili delle strutture formative, e degli stessi operatori e docenti, viene tutt’al più considerato in termini di minore o maggiore propensione al cambiamento. Culture, rappresentazioni sociali, norme e valori di riferimento, aspettative e motivazioni, giochi organizzativi ecc. sono categorie “soft” che, quando si tratta di riprogettare ed analizzare una struttura formativa cedono il passo a categorie più “hard”. Scaturisce da qui l’enfasi per strategie, strutture, rapporti istituzionali, sistemi di gestione, meccanismi di coordinamento e di controllo, mercato e prodotti, tecnologie e risorse.
La crescente acquisizione nei soggetti che operano nei sistemi formativi di queste categorie “tipiche” dell’analisi organizzativa, fa pensare che dopo la gestione dei pedagogisti, dei sociologi, degli economisti del lavoro, degli psicologi, oggi si è aggiunta quella degli “organizzativisti”. Tutto ciò si inserisce in un contesto in cui il peso delle “variabili psicologiche” nel concorrere a determinare gli effettivi “comportamenti organizzativi” appare fortemente sottostimato o relegato nella definizione tutta non strutturata di una “tattica d’azione” da parte del consulente o del decisore organizzativo.
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