Indipendentemente da quale fosse il modello di riferimento, l’attenzione è stata posta nel creare strategie per curare il disagio, ovvero per diminuire i livelli di ansia, depressione, di conflitti interpersonali…
In parallelo, anche la medicina ha per secoli funzionato nell’ottica della cura delle malattie.
A partire dagli anni ’60, in contingenza con il boom economico dei Paesi di Occidente e la conseguente diffusione delle ricchezze materiali, ci si è confrontati con la consapevolezza che la presenza di parametri oggettivi indicatori di una buona qualità di vita (avere un lavoro, una famiglia, una casa, un’istruzione…) non potessero da soli garantire una globale percezione di benessere. A concorrere sulla sensazione di “stare bene” vi erano anche parametri soggettivi, indicatori di uno stato di soddisfazione generale sulle proprie condizioni di vita. Queste non erano più stimate in base all’assenza di malessere o malattia, ma in base alla presenza di fattori che permettessero di “vivere meglio psicologicamente”.
Medicina e psicologia, dunque, hanno iniziato ad investire risorse non solo sulla cura ma anche sulla prevenzione della sofferenza, fisica e psicologica.
E’ in questo panorama che si è fatta strada la coscienza del valore della felicità e del diritto ad essere felici.
Il primo a riflettere sulla felicità in ambito psicologico è, negli anni’60, Fordyce il quale inizia a condurre una serie di ricerche per indagare ciò che rende felici le persone, ben evidenziando che ciò che rende felici è assolutamente personale e soggettivo. Inoltre, in riferimento alla stabilità del benessere soggettivo, Fordyce suggerisce che la felicità delle persone sia basata su tre ordini di fattori: 1) fattori genetici (il 15% circa ), 2) apprendimento durante l’infanzia (35% circa) e 3) fattori ambientali e circostanze di vita (50% circa).
Partendo dunque dall’idea che la felicità possa dipendere, almeno per la metà, da fattori esterni sui quali si possa agire, l’autore ha messo a punto un programma finalizzato ad insegnare alle persone cosa sia la felicità, ad apprezzarla e a raggiungerla: il Subjective Well Being Training (SWBT), in cui apprendere i “14 fondamentali” di Fordyce, ovvero 14 elementi che l’autore ha ritrovato essere riportati in modo costante dalle persone che si auto valutano come persone felici. L’ipotesi del SWBT è molto semplice: imitando le persone felici e, quindi, modificando le proprie azioni, i propri pensieri, lo stile di vita quotidiana, si può diventare più felici.
I risultati degli studi hanno dimostrato che la felicità può essere aumentata nella maggior parte delle persone, là dove queste si impegnino ad attuare i 14 punti.
Il training, strutturato in otto incontri di gruppo da tre ore ciascuno (i primi sei nei primi due mesi e gli ultimi due di richiamo e verifica, dopo due mesi, distanziati di un mese circa), è finalizzato all’apprendimento dei 14 fondamentali della felicità e alla loro messa in atto, attraverso compiti e prescrizioni da attuare tra un incontro e il successivo.
Dal momento che il benessere soggettivo è dato dall’aspetto cognitivo e razionale (come io giudico la mia vita) e da quello emotivo (come io mi sento nella mia vita), Fordyce ha dimostrato che si può agire sia sui fattori cognitivi sia su quelli comportamentali per aumentare gli aspetti emotivi che riguardano la felicità.
Il training per imparare la felicità considera che la stessa si può apprendere investendo energia e coinvolgimento in cinque tipologie di attività:
1) attività piacevoli
2) attività eccitanti, stimolanti
3) novità
4) attività sociali
5) attività significative
Queste cinque tipologie trovano realizzazione in 14 punti, i quali riassumono le caratteristiche che differenziano le persone felici da quelle che non lo sono, e sono anche gli aspetti basilari che una persona può apprendere per migliorare la propria condizione di benessere psicologico.
I 14 fondamentali sono i seguenti:
1. Essere più attivo e occupato
2. Passare più tempo socializzando
3. Essere produttivo in occupazioni significative
4. Organizzarsi meglio e pianificare le cose
5. Smettere di preoccuparsi
6. Ridimensionare le proprie aspettative ed aspirazioni
7. Sviluppare pensieri ottimisti e positivi
8. Essere orientati sul presente
9. Lavorare su una personalità sana
10. Sviluppare una personalità espansiva e socievole
11. Essere se stessi
12. Eliminare i problemi e i sentimenti negativi
13. Le relazioni intime vanno messe al primo posto
14. VALHAP il principio segreto - Mettere la felicità al primo posto
Il training, passando in rassegna ognuno di questi punti, si sofferma sulle strategie per l’applicazione degli stessi, al fine di sviluppare competenze di accrescimento del proprio percepito livello di benessere. L’idea è che per stare bene, dunque, non bisogna pensare a come non stare male ma a come far fruttare le proprie risorse personali per migliorare la propria vita.
Nei primi sei incontri, dopo un’introduzione teorica sul tema e la somministrazione di questionari volti ad indagare il livello di felicità (gli stessi saranno poi ri-somministrati alla fine del trattamento), vengono approfonditi 3 o 4 fondamentali alla volta e revisionati i compiti dati a casa sui fondamentali discussi nella precedente sessione.
L’idea di fondo è quella di educare ad una cultura del benessere, in cui per ottenere lo stesso occorra lavorare alla sua costruzione.
Il training interessa un gruppo di persone: questa dimensione facilita lo scambio delle esperienze tra i partecipanti, i quali devono comunque avere l’idea – dato il piccolo gruppo (max una ventina di soggetti)- di esprimere le personali impressioni e i possibili dubbi.
I risultati del training, valutati attraverso la comparazione dei primi test con quelli compilati nella fase re-test alla fine dello stesso, dimostrano che il SWBT è in grado di aumentare la percezione soggettiva di benessere. Inoltre, diverse ricerche hanno confermato che i risultati raggiunti rimangono stabili nel tempo.
Credo nell’utilità di questo metodo e nell’importanza che ricopre il possedere una conoscenza su quali siano i fondamentali e di come possano essere applicati, non solo all’interno di un contesto strutturato come il training, ma anche come strumento da utilizzare nell’ambito di una terapia individuale in cui si vogliano potenziare le risorse del paziente e non solo diminuirne le difficoltà.
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