Il termine Bullismo è ormai entrato a far parte del parlato comune. Sembra quasi che tutt’a un tratto il mondo abbia aperto gli occhi su questa realtà, che a dirla tutta non è affatto nuova, e che se ne sia abituato pure. Credo, invece, che oggi venga solo affrontata più seriamente, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista giuridico e legislativo. Ma il bullismo non è affatto una “moda” del ventunesimo secolo. Non è stato creato e incitato dai mezzi di comunicazione di massa, come molti sono indotti a pensare. Per capire il fenomeno e riuscire a fronteggiarlo occorre partire dalle sue radici, ossia dal “cosa è” veramente: un comportamento a rischio per l’adolescente.
Possiamo far rientrare bullismo e cyberbullismo nei comportamenti a rischio tipici dell’adolescenza, in quanto le dinamiche sottostanti e i bisogni interni che spingono i ragazzi a praticare questa forma di violenza sono gli stessi di molti altri atteggiamenti preoccupanti di quest’età (abuso di stupefacenti e alcool, guida spericolata, disturbi alimentari, tabagismo, sessualità non protetta, ecc..)
La fase adolescenziale comporta, da parte del giovane, un adattamento che passa attraverso la scoperta di esperienze multiple. A volte esse si presentano favorevoli per lo sviluppo, altre volte invece, a seconda della storia del soggetto, implicano disagi transitori di varia natura che, tuttavia, perpetuandosi in maniera cronica evidenziano problematiche prettamente psicopatologiche.
Le tendenze all’acting, all’opposizione, alla ribellione, alla messa in prova di sè stessi attraverso gli eccessi sono manifestazioni utili per lo sviluppo dell’autodefinizione. Ad esempio la tendenza all’azione (acting out), fisiologica in adolescenza, può rappresentare una modalità della mente per elaborare una realtà interna ricca di continui cambiamenti, instabile e talvolta inquietante; attraverso l’agito, l’adolescente comunica il proprio disagio e tale forma di espressione viene caricata di un valore affettivo e simbolico. L’azione lo aiuta a fronteggiare i conflitti interni. Ma “l’agire i problemi” può creare anche uno spunto per condotte rischiose per sé e per gli altri.
È perciò fondamentale analizzare il rapporto che i giovani hanno con il rischio: dal momento che tali condotte a quest’età di per sé non sono patologiche, bisogna cercare di dargli un senso, di contestualizzarle, sforzandosi di comprendere le modalità con cui il ragazzo si avvicina ad esse.
Spesso si dà maggiore importanza ai comportamenti a rischio più palesi e che possono riportare gravi conseguenze per l’incolumità psico-fisica del ragazzo, ma esiste tutta una gamma più silente di esperienze (per esempio scrivere sui muri, gli attacchi al corpo mediante i piercing e i tatuaggi) a cui dare un senso. Queste condotte di solito vengono messe in atto per colmare un vuoto interiore, per lasciare un segno, per marcare la propria identità in una società che tende sempre più alla globalizzazione, e di conseguenza alla spersonalizzazione. Quindi possiamo ricondurre simili azioni al tentativo di portare a termine due compiti di sviluppo:
- instaurare relazioni sociali adulte e/o con gli adulti
- costruire autonomamente la propria identità, staccata da quella dei genitori
In genere i ragazzi tentano di raggiungere questi compiti tramite:
- adultità. Assunzione di comportamenti che nell’adulto sono ritenuti normali, come il tabagismo
- trasgressione. Intesa come un agire contro le regole del mondo adulto, con lo scopo di riuscire ad affermare la propria autonomia, indipendenza e capacità decisionale. Ciò si esprime soprattutto con l’abuso di alcool e droghe, la violenza, la guida veloce
- affermazione di sé e delle proprie capacità fisiche e psichiche. Ci si mette alla prova attraverso la ricerca di situazioni forti ed estreme, fino ad arrivare all’alterazione della coscienza con droghe e alcool, o con la ricerca del brivido tramite corse in stato di ebrezza e gare di velocità
- fuga dalla realtà e ricerca di una risoluzione emotiva immediata dei problemi. In questo caso, i comportamenti a rischio si configurano come una strategia di coping (cioè una forma di risoluzione del problema) che però risulta perdente. Ad esempio, l’alimentazione consolatoria o l’abuso di alcool e marijuana
- costruzione di un legame sociale e di gruppo con i coetanei, realizzato attraverso modalità ritualizzate. I riti servono a segnare il passaggio dall’infanzia all’età adulta come dimostrazione di forza e di virilità per i maschi.
Inoltre, Marcelli e Braconnier, due psicoanalisti che si sono occupati a fondo delle dinamiche adolescenziali, attuano una distinzione tra il comportamento rischioso inteso come ricerca di limiti, un modo per conoscersi e riconoscersi; oppure come sfogo di un’eccitazione che minaccia il soggetto di un debordamento, di lotta contro un vissuto di vuoti e noia, di ricerca di sensazioni.
Le modalità per affrontare le funzioni appena descritte possono essere di due tipi:
- condotte in cui il soggetto proietta verso l’esterno il suo disagio (azioni violente o antisociali, abuso di sostanze)
- agiti caratterizzati da un rifugio in sè stessi in cui il soggetto introietta situazioni spiacevoli e le sfoga tramite atti autolesionistici, suicidi o tentativi di suicidio, disordini alimentari.
Possiamo collocare il bullismo e il cyberbullismo nella categoria delle condotte esternalizzanti.
I motivi che portano un ragazzo a diventare bullo riguardano il rapporto tra l’altro e sé, l’immagine che si vuol dare all’esterno e, allo stesso tempo, la proiezione del proprio vissuto interiore verso il modo delle relazioni. La rabbia del bullo può cosificarsi in azioni che hanno lo scopo ultimo e meno evidente di essere approvati e considerati bravi e capaci, di compiacere le aspettative dei genitori o dei coetanei, dal desiderio di identificarsi con un gruppo per aumentare il livello di autostima.
Anche il rendimento scolastico può essere influenzato da questi aspetti emotivo-relazionali: il fatto di conseguire cattivi risultati scolastici, spinge il ragazzo a frequentare compagni con le stesse caratteristiche, che si sostengono reciprocamente nell’esprimere atteggiamenti sempre più negativi verso la scuola. Il bullo costituisce un modello positivo per i componenti del gruppo, che sono spinti a imitarlo. Ecco perché essere bravi a scuola può diventare causa di emarginazione dal gruppo.
Ad oggi, internet e le modalità di “comunicazione non faccia a faccia” sono uno spaccato molto importante nella vita dei giovani. Perciò i social e il web rappresentano la via d’accesso alla violenza più immediata, ben conosciuta dal gruppo dei pari, ma meno comprensibile e controllabile dagli adulti e dalla scuola.
Ed ecco che il bullo e il cyberbullo possono essere ragazzi con lo stesso vissuto interiore di rabbia e sensazione di non essere visti, ma che preferiscono due mezzi diversi per esprimersi. Oppure possono essere la stessa persona che grazie al poco controllo esistente sul web, ha acquisito una modalità in più per espletare i suoi agiti.
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento