La psichiatria e anche certa psicologia definisce, raggruppa, differenzia le problematiche psichiche, in relazione ai sintomi che le accompagnano, sulla base di criteri condivisi attraverso l’uso di manuali, il più utilizzato è il Manuale Diagnostico e Statistico DSM (DSM-5, 2013). In questo modo, facendo una diagnosi, etichetta e dà un nome al “problema” o alla sindrome, che raggruppa differenti problemi.
Usare le definizioni, per dire del disturbo psicologo, è diventata un’abitudine così generalizzata, che spesso il paziente si presenta definendosi con il suo disturbo: sono depresso/a, ipocondriaco, fobico ecc.. Nonostante la ricerca accurata della categoria diagnostica da parte dei professionisti, non è infrequente che il disturbo non si lasci chiaramente individuare e incasellare, tanto che la diagnosi rimane dubbia e magari oscillante fra due o più “psico-patologie”. Alcuni termini, diventati di uso comune, sono utilizzati anche dai pazienti a sproposito e senza una chiara nozione del significato; a volte, soprattutto se alludono a “mali” gravi e paurosi, come il delirio, la schizofrenia o la depressione, com’è prevedibile, incutono paura, senso di pericolo e impotenza.
Questo approccio è agli antipodi rispetto all’approccio della psicoterapia transpersonale. Per quest’ultima non è importante definire il disturbo – benché ovviamente gli psicologi trans personali lo sappiano fare, se non altro per comunicare con colleghi di altri indirizzi-, quanto piuttosto comprendere e avvicinare la persona nella sua globalità, in modo Olistico. Fin dal primo approccio, l’intento è di guardare al problema che la persona porta come a un quadro articolato, fatto di elementi interconnessi, che ha un senso, alla luce di una visione e di certi presupposti metodologici, e contiene in sé i presupposti per la cura.
Per ciò che mi riguarda, quando un paziente si presenta nel mio studio più che limitarmi a ragionare in termini di diagnosi, io mi predispongo ad ascoltare una storia, la storia della persona che ho di fronte, così come emerge dal suo vissuto del momento; un ascolto per così dire fenomenologico, che pone attenzione soprattutto allo “stato” della persona, al vissuto soggettivo che viene presentato. Vuota e sveglia ascolto, sento, osservo come questo stato si riverbera su tutti i piani di quello che in Biotransenergetica (BTE) viene chiamato il Sé organismico (P.L. Lattuada 2012): dal livello fisico, a quello energetico, emotivo, mentale e spirituale. Registro il come, il modo in cui si presenta, accogliendo ogni cosa, indistintamente e senza giudizio, tanto le luci della persona, quanto le ombre, che inevitabilmente emergono. Inoltre mi occupo di creare uno spazio condiviso di ascolto e accettazione incondizionata, un campo unitivo, che contiene me, l’altro e la relazione che ci unisce, e che sarà poi il contenitore, la dimensione della cura nel corso della terapia (P.L. Lattuada 2012). Come terapeuta in questa fase delicata, ma anche in seguito, mi pongo al servizio e faccio in modo che il paziente percepisca questo campo di attenzione alla cura, che è il primo e forse il principale ingrediente che consente le trasformazioni che avvengono in psico-terapia.
Contesto: preparazione della ricerca.
Da quando svolgo questo lavoro mi sono appassionata sempre di più ai racconti di vita e psicoterapia dei miei pazienti, ne ho visto l’evoluzione dentro le maglie della terapia, ma anche gli arresti, le fatiche e gli orizzonti perenni. Il racconto, le narrazioni o le testimonianze, mi interessano in quanto permettono di vedere la bellezza delle persone, le loro forze e debolezze, il loro Daimon per dirla con Hillman (2009). Si tratta di una potente forza sotterranea che talvolta la storia manifesta; Hillman la chiama anche destino (2009), non in senso deterministico, ma perché essa sembra premere e spingere quella singola esistenza verso il proprio compito evolutivo ed esistenziale.
Ritengo che le storie abbiano una potenzialità esplicativa intrinseca, forniscono immagini vivide e pregnanti, che a volte raccontano meglio della teoria, cosa e come il narratore o il ricercatore si è addentrato nell’universo di quella singola individualità, con quali categorie ha provato a comprendere i dati clinici o le testimonianze raccolte.
Il primo a capire l’importanza delle storie dei pazienti è stato Freud, che ha fatto della descrizione di casi clinici il principale terreno di germinazione delle sue ricerche e delle sue elaborazioni. Già dagli esordi, quando compiva i suoi primi Studi sull’Isteria (1886-1895), e nel corso di tutta la sua vita di ricercatore della psiche e dell’inconscio umano, ha utilizzando il racconto delle storie dei pazienti per mettere a punto metodi e tecniche di indagine e di sviluppo della la psicoanalisi. Lo stesso Hillman, già citato, ci racconta le storie di personaggi famosi e meno famosi, letti attraverso la lente del suo “Codice dell’anima” (2009).
Le storie cliniche, in genere raccontano di come il malessere, a volte a lungo cresciuto nell’ombra, all’improvviso esplode e si presenta; qualche volta inspiegabilmente, altre volte collegato a una causa che, almeno al primo sguardo, può apparire come fortuita. Il malessere esplode e rende impossibile continuare a condurre la propria vita con i mezzi abituali. Per lo più sono persone arrivate, ognuno per vie diverse e personalissime, a un punto critico, annunciato dalla malattia, sia essa fisica o dell’anima, dal disagio psico-fisico o esistenziale.
Le persone che vengono per curarsi e superare la crisi, innanzitutto chiedono aiuto su un piano personale. Vogliono che le loro vite tornino o incomincino a essere piene e soddisfacenti, ma in prima battuta vogliono superare il problema e sperano che così la vita possa tornare ad essere come prima. Durante la terapia transpersonale, si accorgono che il cammino proposto può andare ben oltre questo e in una direzione diversa dal ripristino della situazione precedente la crisi.
Come proverò a descrivere attraverso questa ricerca, il cammino evolutivo ben presto si rivela essere non solo personale, ma transpersonale, li spinge cioè alla ricerca della loro vera natura, ovvero del Sé. Questo percorso è quasi inevitabile con una terapia transpersonale, e non avviene solo in ragione del metodo, ma anche in ragione della scelta, fatta dal paziente più o meno consapevolmente, di quel particolare terapeuta, che proporrà quel genere di cura. In sostanza la mia esperienza dice che chi inizia a lavorare su di sé per ragioni personali, poi, strada facendo, si accorge che l’apertura e la disponibilità richiesta da questo tipo di terapia, porta inevitabilmente a lasciare tutto, gli attaccamenti, le certezze, gli appigli e le difese, per consegnare l’Io della persona al compito evolutivo che gli o le spetta, che è andare oltre se stesso/a, nei territori del Sé.
Con questo lavoro di ricerca mi sono proposta, non tanto di raccontare delle storie, ma di provare a far parlare le “storie di terapia”. Per questo ho pensato di utilizzare il metodo narrativo, che nella sostanza, oltre che nella forma semantica del “nome”, sembrava corrispondere bene al mio intento.
Attraverso questo metodo, mentre la persona racconta, per esempio in risposta a domande che si riferiscono alla sua esperienza, ha modo di rendere più evidenti, anche a se stessa (costruzione del Sé e/o senso di identità), gli elementi e i contenuti che via via esprime; nella co-costruzione dei dati, che avviene con l’aiuto del ricercatore, che sostiene la narrazione pur lasciandola libera di fluire, il processo di conoscenza ha modo di approfondirsi e ordinarsi progressivamente, fino a definire, nella conoscenza condivisa, un insieme narrativo unitario e riconducibile all’esperienza complessiva della persona (G. Calabrese, 2012).
Metodo
La scelta dei pazienti a cui chiedere di partecipare allo studio è stata dettata da motivi squisitamente personali e soggettivi, basati essenzialmente sulla maggiore confidenza con alcune delle persone che mi sono state inviate o sono arrivate spontaneamente come pazienti.
I pazienti sono: un uomo di 34 anni, da me seguito in terapia da circa tre anni, una giovane donna di 32 anni, che seguivo da due anni circa, e altre due donne di e 28 e 29 anni in terapia rispettivamente da un anno e da poco più di 6 mesi. Tutti hanno dato il loro consenso a partecipare allo studio di cui sono state descritte modalità e finalità.
Nel riportare le loro storie userò nomi fittizi, e i dati che potessero svelarne caratteristiche distintive per un’eventuale identificazione sono stati omessi o modificati.
Nel periodo gennaio-febbraio 2014 ho condotto le interviste e trascritto il testo che è stato poi analizzato secondo l’analisi tematica descritta da Braun and Clarke, V. (2006).
L’intervista ha seguito lo schema semi-strutturato di domande riportato di seguito.
Esperienza del PRIMA |
Esperienza del DOPO |
Come stavi quando sei arrivato/a in psicoterapia? |
Come stai ora? |
C’erano stati psico-fisici associati a questo vissuto? Quali? |
Quali sono ora? Li vuoi descrivere? |
Qual’era il rapporto con te stesso/ te stessa? |
Com’è il rapporto con te stesso/a ora? |
E il rapporto con gli altri; contesto di vita, relazione, lavoro…? |
Qual è il rapporto con questi contesti al momento attuale? |
Come vivevi la tua vita affettiva? |
Come la vivi ora? |
Qual’era il significato della tua esistenza? |
Qual è adesso? |
Chi, cosa ti aveva insegnato nella vita? |
Cosa o chi ti insegna ora? |
Qual’era la tua visione del mondo? |
Qual è al presente? |
Cosa ti chiedeva la vita? (qualità richieste?) |
Cosa ti chiede adesso? |
Queste domande sono emerse dalla mia esperienza personale durante il percorso di formazione in psicoterapia transpersonale, secondo l’approccio della BTE.
Ho inoltre seguito la griglia BTE (Lattuada, 2012) che sul Piano dell’Io (il corrispettivo di una scheda anamnestica tradizionale), tende a mettere in evidenza quale sia l’esperienza dei pazienti quando arrivano, i transe cronicizzati o blocchi psico-fisici che essi presentano e che di solito evidenziano un più o meno profondo malessere soggettivo. In sintesi la motivazione e la condizione esistenziale che porta il paziente a chiedere aiuto psicoterapeutico. La BTE considera poi il Piano evolutivo del Sé, il livello di evoluzione della persona in un dato momento: il grado di consapevolezza di sé, del compito esistenziale a cui si sente chiamata, i talenti che si riconosce, la visione del mondo ecc. Rispondendo a domande relative a questi due ambiti, l’Io e il Sé, in riferimento all’esperienza soggettiva del “prima” e del “dopo” l’incontro con il Transpersonale, penso sia possibile mettere in evidenza eventuali trasformazioni o cambiamenti effettivamente osservabili.
Ricostruzione del testo: analisi delle esperienze.
1. Manifestazioni del disagio che la persona prova e porta in terapia a inizio terapia.
L’intervista, così come il primo colloquio nella pratica clinica, parte dalla descrizione di qual è il disagio che ha condotto la persona dal terapeuta e quali sono gli stati psico-fisici che accompagnano tale disagio.
Tatiana, che si è presentata spontaneamente, viveva un momento molto critico legato al sentirsi piena di dubbi e ansie riguardo al futuro. A quasi trent’anni, aveva un lavoro non apprezzato in famiglia, non aveva finito gli studi universitari e si riteneva una fallita su molti fronti. Troncato da poco un rapporto sentimentale importante, viveva relazioni sentimentali insoddisfacenti, ma non si sentiva disposta a stare da sola, né a lasciare la famiglia d’origine.
T. descrive uno stato emotivo caratterizzato da: (…) paura di essere abbandonata, non apprezzavo più nessuna cosa. Sul piano mentale descrive: avevo tanti dubbi, tante domande, ero incapace di prendere le decisioni (…) la mente era come se fluttuasse, in un’altra dimensione; non avevo la consapevolezza di quello che facevo. Inoltre: ero agitata, non mi vedevo neanche, ero claustrofobica. Alcuni sintomi fisici ed emotivi si sono presentati a terapia appena iniziata: senso di panico, descritto come affanno e difficoltà a respirare.
Petra, arrivata perché fortemente depressa, era appena tornata in Italia dalla Spagna, suo paese di origine, dopo molti apparenti successi negli studi e nel lavoro. Aveva un lavoro stabile in Italia, ma manifestava una scarsissima autostima. Diceva di sentirsi male, soprattutto in relazione a un rapporto affettivo disastroso, con un ragazzo che durante la convivenza, di due anni circa, l’aveva umiliata, ingannata e infine derubata di una proprietà di famiglia. Questo, inoltre, le generava sensi di colpa verso i genitori, del tutto idealizzati.
P. dice: piangevo, ma non realizzavo quel che stava succedendo con tristezza. Quando ho cominciato a sentire l’ansietà è stata una cosa orribile, non riuscivo a stare da nessuna parte.
P. provava a pensare se il suo stato era collegato all’esperienza con l’ultimo ragazzo, che le aveva rubato i soldi, tuttavia: (…) non mettevo che era quello però, ma non sapevo come uscirne.
Margherita, arrivata per un problema psico-fisico importante, manifestava in realtà diversi disturbi psico-somatici, e uno stato di disagio esistenziale considerevole. Aveva fatto la scelta coraggiosa di lasciare un lavoro sicuro, che le avrebbe permesso di fare carriera, per seguire la sua vocazione artistica, ma non sapeva più chi era, né cosa davvero volesse.
M.: fisicamente avevo sempre lo stesso problema: si chiama vaginismo. Ma il problema era riuscire a sopravvivere (…) era tristezza, mancanza di direzione (...) La Multinazionale schiaccia-sassi, alla sua estrema potenza, massima virulenza, mi ha fatto cadere i capelli, non riuscivo a digerire.
M. dice di sentire: diversi tipi di energia nel mio corpo, in me. Dice anche che la questione è: essere più in contatto con alcuni stati che avevo completamente tralasciato.
Davide è arrivato in seguito a crisi di panico e insonnia. Gli attacchi di panico, tenuti a bada con i farmaci per alcuni mesi, non si attenuavano. D., che è una persona molto razionale e controllata, era molto disorientato, ma era anche convinto che il problema fosse dovuto a due vicini di casa molesti, che urlavano, litigavano, anche prendendosi a botte e sbattevano i mobili durante la notte.
D. dice: (…) il mio corpo presentava delle reazioni ai litigi dei pazzi sotto o all’assenza dei litigi; quest’agitazione, questa tachicardia incredibile, mi era passato l’appetito, ero in uno stato di continua allerta sul piano fisico; su un piano più profondo ero indignato per la situazione, mi sentivo impotente.
T. ha la sensazione di essersi persa, sembra perso il collegamento con sé, le diverse manifestazioni vengono solo elencate ma non collegate fra loro. P. parla di lacrime che escono nei momenti più impensati, anche di nausea, ansia e altri sintomi fisici, ma dice di non avvertire l’emozione corrispondente. E’ come se la manifestazione fisica, il pianto, sia scollegato dal livello emotivo e mentale. A differenza di P. e T., che fanno fatica a sentire collegare i vari stati psico-fisici, per M. tutto è collegato con tutto, dentro. M. collega lo stato di disagio emotivo e mentale al sintomo fisico. P., che pure presentava reazioni fisiche molto forti, non era in grado di spiegare tali reazioni, limitandosi ad etichettarle: una depressione totale, ero super triste, piangevo. Anche D. non è in grado di riconoscere e spiegarsi le reazioni così forti al disturbo creato dai vicini: Si era innescato un meccanismo di cui non comprendevo i confini. Mi rendevo conto che ampia parte del problema era legato a quella situazione (i vicini n.d.a), ma mi rendevo conto altrettanto che c’era dell’altro.
Queste manifestazioni fisiche, sono sempre significativamente collegate allo “stato” complessivo della persona, anche se il collegamento può non sembrare evidente all’inizio.
Le manifestazioni, che dal punto di vista psicologico si presentano come difese, attaccamenti, identificazioni, idee e pensieri che ammalano, si esprimono sul piano fisico ed energetico attraverso tutta la costellazione di disturbi somatici; mentre sul piano emotivo ci sono le manifestazioni della sofferenza, sotto forma di ansia o depressione, che di solito spingono e motivano la richiesta di aiuto.
Il corpo parla forte, tutti i suoi “veicoli”: fisico, energetico, emotivo e mentale, danno dei segnali che, se ascoltati e collegati fra loro correttamente, aprono la porta alla comprensione di ciò che sta accadendo all’individuo nel suo insieme.
Un altro aspetto da considerare è la diagnosi con cui i pazienti si sono presentati.
D. era arrivato da me inviato dal CPS (Centro Psico-sociale) con una diagnosi di disturbo d’ansia con attacchi di panico. Anche M. dice una volta sola del problema di vaginismo e, non a caso, ne parla in terza persona: un problema di natura psico-fisica, si chiama vaginismo, poi non ci torna più su e anzi spiega che, nonostante l’accanimento con cui negli anni ha provato a venirne a capo, il problema sessuale, a inizio terapia, non è affatto centrale. T. che, a differenza degli altri tre, è venuta in terapia spontaneamente, senza passare dal Servizio pubblico, non parla in nessun caso di diagnosi.
I pazienti che sono passati dal servizio psichiatrico territoriale o hanno alle spalle altre esperienze di psicoterapia (M. ad esempio), inizialmente accennano alla diagnosi avuta. Nel corso dell’intervista, come pure del lavoro in terapia con me, la diagnosi non è più nominata, segno che l’attenzione si è spostata sul vissuto soggettivo, molto più funzionale alla cura rispetto all’etichetta diagnostica.
2. il Processo di trasformazione può essere descritto attraverso categorie psicologiche che lo guardano da angoli visuali diversi. Quello che emerge dal racconto delle esperienze, è il processo che conduce gradualmente alla disidentificazione dai contenuti della coscienza che ammalano e disturbano.
M. la esprime così: mi sento più morbida, più sensibile e emotiva, e quindi non ho più avuto occasione di avere questi rapporti così sbilanciati in cui io facevo il maschio.
L’identificazione con il “maschio” in lei, portava esclusione, la parte morbida, femminile, emotiva, veniva negata a favore dell’altra. Ne derivava una falsa e ristretta cognizione di sé. Ora che M. ha iniziato a vedere quest’altra sua parte, la conseguenza è che i suoi rapporti sono meno sbilanciati.
D. dice: Il mio fare si è caricato di dimensioni; prima invece era unica: io lavoro, io faccio perché devo vivere …. Ora posso essere diverso da quello che gli altri pensano. Sento che non è indispensabile che ci sia questo riconoscimento.
La visione dell’Io restringe il campo, è costrittiva, la visione e dimensione del Sé, oltre l’identificazione, apre orizzonti (nuove dimensioni dice D.) Quando i confini del Sé si allargano, c’è maggiore libertà d’azione. Quando il riconoscimento non è più indispensabile, l’identificazione con il bisogno di piacere non è più coercitiva.
P. dice: adesso se non piaccio a qualcuno sono più tranquilla; non devo essere perfetta per tutti.
Anche per lei la disidentificazione dal bisogno di esser perfetta porta ad un maggior benessere nella relazione con se stessi.
D.: Mi ha molto rassicurato poter chiamare per nome le cose e vederle come mie.
Riconoscere e accettare le cose come proprie rassicura, ciò che prima era escluso, rifiutato o semplicemente non visto dalla persona, viene reintegrato.
M.: Quando c’è una situazione di stress, io sono sempre io, con le mie difficoltà e tutto, però mi conosco meglio.
P.: adesso mi accetto di più come sono, se mi vedo la cellulite mi dico: devo lavorare di più … non dico: sono la più brutta del mondo.
T: quando le situazioni prendono il sopravvento su di me riesco a gestirle, magari con difficoltà, però riesco.
Ciò che accomuna queste testimonianze pare essere che, se non si è più identificati con le proprie difficoltà, si può agire e ci si sente meglio. I problemi o le difficoltà non sono eliminati, ma la persona smette di sentirsene sopraffatta, schiacciata. I pazienti hanno smesso di identificarsi con una sola “parte” di sé. Si potrebbe anche parlare di “ruoli” o copioni che, se agiti inconsapevolmente dalla persona, finiscono per limitare e costringere l’individuo in modi di pensarsi e agire che risultano altamente disfunzionali e purtroppo assai dolorosi.
Il processo di disidentificazione porta inoltre ad un cambio di prospettiva.
D.: questa dimensione emotiva, non è più un limite, un intralcio alla mia vita pratica (…) Adottare questa prospettiva mi ha reso più felice.
T.: (…) questa acquisizione di sicurezza mi ha fatto bene da un punto di vista di autostima; riesco a guardarmi in un’altra maniera rispetto al passato, se prima ero piena di dubbi adesso ne ho ancora, ma ho anche certezze e su queste vado avanti.
M.: E’ molto cambiato con la terapia, anche il rapporto con le persone, nel senso della maggiore morbidezza con cui accetto i limiti.
P.: Riesco a identificare quando sto entrando in un cerchio di follia (la sensazione di essere odiata n.d.a). Riesco a togliermi fuori, salvando questa relazione (con il fidanzato n.d.a.), e secondo me sto sentendomi amata come non l’ho mai fatto.
3. Un altro processo che viene descritto durante l’intervista è la progressiva accettazione incondizionata di tutte le proprie parti, di tutti gli aspetti della persona, anche quando questi agli occhi della mente sembrano inconciliabili.
P. dice: quando non riuscivo a essere considerata dalle altre persone mi sentivo veramente male, sentivo il vuoto, l’umiliazione (…) mi sentivo minacciata. Ora ho capito che non bisogna essere super-girl, e che a volte non posso essere la migliore, ma che non succede niente se non lo sono. Il bisogno di essere amata, riconosciuta, va integrato dalla persona, accolto come cosa propria.
M. dice che le altre terapie che ha seguito prima di questa insegnano che: il problema va risolto, il comportamento è sbagliato, è nevrotico, è scorretto, quindi bisogna tagliare questa dinamica. In realtà tutte le esperienze che ho fatto vanno bene, perché si vede erano i punti in cui dovevo passare. Dice anche di aver capito che è necessario: accettare che le cose si risolvono quando si può, che non fa niente se sto perdendo tempo. Aggiunge: c’è una situazione che sarà da risolvere, ma probabilmente si risolverà anche da sola. Non tutto va risolto ora.
L’accettazione di sé con i propri limiti porta alla cessazione della lotta. Il problema, qualunque problema o “sintomo” non va eliminato perché sbagliato, come affermano altre psicologie, al contrario va accettato fino in fondo; in questo modo diventa la “chiave”, lo strumento per la cura. Inoltre, l’accettazione ci proietta oltre il problema, oltre la ricerca di soluzione. Entrare in contatto con il limite, con il problema, ci permette di fare il salto di coscienza, scoprendo così che il problema, in un certo senso, non esiste. M. sta capendo e sentendo che le cose si risolvono accettando.
Cito ancora M.: il concetto del va tutto bene, è tutto giusto, detto così sono solo parole, e invece l’ho sentito, mi ha aiutato nel non giudicare (il padre n.d.a.), nel non dire io sono così perché i miei genitori hanno sbagliato. In queste parole possiamo vedere l’accettazione che l’ha aiutata a fare il passaggio e a smettere di giudicare il padre, ma anche la sua storia. L’accettazione permette di uscire dal circolo vizioso del determinismo.
D.: Io mi scontravo col fatto che lì (in certi casi n.d.a.), non c’era niente da fare, la realtà comanda lei. L’esito è quindi di una grande leggerezza di fronte alle situazioni in cui metto in atto questo, perché mi sembra di accettare dei lati di me, meno razionalmente auspicabili.
Da notare inoltre che quando D. parla di: lati di me meno razionalmente auspicabili, descrive una mente giudicante e trova quei lati non positivi. Possiamo forse dire che l’accettazione chiede di andare oltre il giudizio della mente.
4. In alcuni passaggi dell’intervista i pazienti hanno parlato di cosa avviene quando la trasformazione della coscienza si realizza e c’è un cambio di stato.
T.: ho avuto questa sensazione di solitudine talmente profonda, che quasi mi è mancato il fiato (…) Era come se la mente avesse preso sopravvento su tutto il corpo e poi quando me ne sono accorta avessi fatto il contrario, avessi guardato al corpo e con la respirazione mi fossi placata.
P.: è come se si fossero aperte le porte a tutto l’amore che lui (il fidanzato n.d.a.) mi stava dando fin dalla notte prima, è entrato; quindi ho fatto cadere il peso, vedendo tutto quello che lui mi stava offrendo. E ancora P.: non è solo dirmi che è così, ma anche far passare, avvenire quel clic che ti fa sentire bene.
T.: C’è stato un punto di svolta in cui ho detto: vivere ok, ma bisogna accorgersi di vivere. E’ stata come una presa di coscienza. Ora è come se vivessi tutto con estrema intensità, con passione.
Come descritto da P. il passaggio da uno stato di coscienza all’altro, avviene in un clic che cambia tutto.
La cura viene da dentro, quando, con o senza l’aiuto del terapeuta, la persona sceglie di invertire il flusso (come per T.). Togliere potere alla mente, rimanere in contatto con le sensazioni del corpo e con il respiro, per realizzare quella che in BTE viene chiamata la padronanza del Transe (P.L. Lattuada, 2012).
5. Le Qualità Archetipiche o Transpersonali descrivono al tempo stesso certe attitudini personali a risuonare armonicamente in relazione alle diverse qualità del Vivente (P.L. Lattuada, 2012), ma anche la possibilità di far emergere ciò che ancora è sconosciuto a noi stessi. Si tratta, in entrambe le accezioni, di ciò che si va scoprendo durante il viaggio che ci porta a noi stessi.
Nell’intervista abbiamo esplorato come il viaggio che ci porta a noi stessi, passa anche attraverso la scoperta, riscoperta o emersione, di qualità e talenti che magari erano rimasti soffocati, poco sviluppati o del tutto schiacciati sotto il peso dei condizionamenti o blocchi legati alla vicenda personale.
M. parlando del suo talento artistico dice: Credevo e credo tutt’ora, l’unica cosa che non è cambiata, di avere un talento, però ho sempre avuto talmente paura di essere smentita, che questo talento l’ho messo via. Aggiunge: cerco di prendermene cura e dargli un po’ d’acquina (…) cerco di nutrire questa cosa (…) non è che se ce l’hai esce, è una cosa che va annaffiata, nutrita, amata.
Secondo la visione della BTE le Qualità del Sé sono sempre presenti, la voce interna che dice della loro esistenza non può essere mai spenta totalmente, anche se mettiamo via il talento. L’amore cura, nutre e fa crescere il talento. Al contrario il giudizio, la critica, ma anche la paura e i condizionamenti lo affossano. Le Qualità del Sé, in questo caso per M. la sua creatività, non è solo qualcosa che si “pensa” di possedere; una volta sentito e riconosciuto, come se fosse una propria creatura, il talento chiede di essere coltivato con amore, in modo da potersi esprimere pienamente, esplicare nella vita.
P. dice: devo lavorare sui miei talenti; riuscire ad amare. A me sembra di amare tantissimo, almeno credo; capire che posso essere amata, sentire di essere amata: ci sto lavorando, non so... P. non è ancora arrivata al punto di poter riconoscere i suoi talenti, ha molti dubbi anche sulla propria capacità di amare o di sentirsi amata. Infatti, conclude la risposta sorridendo e dicendo: non so.
M. a proposito di qualità parla dell’archetipo dell’amore Materno e racconta di averlo trovato e riconosciuto attraverso una sua insegnante del liceo: (…) forse mi ha insegnato che è possibile essere apprezzati per la propria essenza, in tutto. Con questa insegnante é stato un amore totale, quando disegnavo, anche quando disegnavo male, lei era una che credeva in me.
M. parla di un “amore totale” per questa insegnante. Riconoscerlo in un’altra persona, poterlo apprezzare in quanto rivolto a sé, le ha permesso di iniziare a sviluppare la stessa qualità, almeno sul versante ricettivo.
A proposito di talenti D. dice: (…) tu non capisci bene cosa sta succedendo (parla della terapia n.d.a.), però senti di dover mollare gli ormeggi e fidarti.
T. non parla espressamente di talenti o Qualità: rendermi conto di quante capacità ho io, personalmente, mi ha aiutato tantissimo e mi permette di affrontare altri problemi (…) ho affrontato il peggio e posso affrontare tutto il resto adesso. E anche: mi ha fatto bene da un punto di vista di autostima, ho acquistato molta sicurezza e ne ha beneficiato tutta la mia vita.
Come per D., che ha scoperto la qualità della fiducia durante la terapia, anche per T. queste qualità personali sono emerse nel corso del lavoro terapeutico; hanno potuto essere viste e riconosciute come proprie quando il percorso ha fatto regredire i dubbi, l’incapacità di decidere, la totale incertezza dell’inizio.
L’emersione delle Qualità, che per la BTE sono tanto personali quanto transpersonali, in quanto attingono a un orizzonte archetipico universale, porta con sé una migliore qualità della vita nel suo insieme.
Nel caso di P. l’argomento delle Qualità del Sé ha una connotazione di segno contrario, infatti dice: se guardo al futuro non sono ancora pronta a sognare; quando mi metto a sognare mi viene un po’ l’ansia, non posso. P. guada al futuro con preoccupazione, la fiducia e la capacità di restare nel qui e ora sono ancora precarie. Si può supporre che l’ansia venga dal fatto che P. non si permette ancora di sognare, ma guarda al futuro con le modalità dell’Io.
Sembra che le Qualità del Sé possono emergere più facilmente quando, e proprio nella misura in cui, regrediscono gli attaccamenti e le difese dell’Io. Le qualità, in questo caso della fiducia, ma anche del coraggio di abbandonare i vecchi schemi, possono essere percepite e fatte proprie quando l’Io si arrende.
6. In alcuni punti delle interviste, le parole riferite dai pazienti parlano in modo chiaro e personalissimo, di cosa sia stato per ognuno il cambiamento, il progresso del cammino evolutivo, fino al momento presente. Ritengo di poter unificare le diverse testimonianze nella dicitura: seguire il Sé.
I percorsi possono essere molto differenti, ciò che mi sembra emerga è che la meta è comune. Ognuno arriva dove deve arrivare a suo modo.
Per M: fino a che io non troverò un altro equilibrio, che spero sarà più precario; spero di non pensare mai più in termini di strada, paletti, step ... M. continua: seguire la mia strada, che è diverso dall’avere successo (…) vivo meglio, sto meglio nella mia vita, nei miei panni; nel senso che ho accettato le scelte che ho fatto, vedo la vita che sto facendo adesso come la mia vita, la mia strada e .. che va bene.
Imparare ad affidarsi al Sé vuol dire lasciare la ricerca di sicurezze (vie o strade tracciate) e intraprendere il viaggio che ci porta a noi stessi. Il compito evolutivo si colloca oltre l’avere successo, è oltre la realizzazione personale.
Per D.: (…) identificato il sentimento (verso la madre n.d.a.), condiviso con G. (il suo compagno n.d.a.), il sentimento si è sciolto e ha lasciato spazio ad altri sentimenti che la vita ha portato con sé. Ecco questa è una grande conquista. Il lavoro trasformativo del Sé, permette a D. di sciogliere il sentimento negativo verso la madre, non rimanerci più attaccato con sofferenza, come avveniva prima. Questo ha come conseguenza che c’è spazio per altri sentimenti e lui sente di aver fatto una grande conquista. Ancora per D.: è una semplificazione che io sia curioso; sì, è vero, ma forse potremmo dire anche il contrario. Riconoscerlo mi dà un grande senso di libertà. Scoprire qualcosa di sé e riconoscerlo dà come ricaduta positiva un grande senso di libertà.
Dice P.: senza volerlo cambiare, il mio atteggiamento verso i miei (genitori n.d.a.) non è più lo stesso. Qualcosa è cambiato, senza volerlo cambiare, senza contributo della volontà, dell’Io. Questo è indice che c’è stato un affidarsi al percorso evolutivo.
Per T.: sapere di aver affrontato un percorso di questo genere e aver avuto la capacità di rendermi conto di quante capacità ho io, personalmente, mi ha aiutato tantissimo e mi permette di affrontare altri problemi. T.: ho versato tantissime lacrime, alcune secondo me purificatrici, e mi dico: è servito tutto, perché se no non sarei come sono adesso.
Il percorso è pro-attivo, richiede protagonismo, il terapeuta aiuta, ma la cura si realizza nel viaggio interiore, che solo il paziente può scegliere di fare. La persona si accorge che il percorso non poteva essere che quello, e in mezzo a molte lacrime, cadute e risalite, la sta portando al suo vero Sé.
Il senso della vita dice T.: (…) lo diamo noi, secondo me, in ogni cosa che facciamo, nel modo in cui affronti le cose, affronti una relazione, la giornata lavorativa, il rapporto con i genitori. Secondo me il senso della vita è un atteggiamento mentale.
T. parla di un cambio di atteggiamento mentale, con la BTE potremmo forse dire che è cambiato il suo modo di stare nella relazione con le cose; il viaggio verso il Sé non chiede che le condizioni esterne cambino. Fuori le cose sono ancora le stesse: il lavoro, le relazioni, i genitori ecc., quello che è cambiato è l’atteggiamento interiore, in BTE diremmo il Transe con cui si guarda e si partecipa ad esse. Per D.: io riconoscevo valore conoscitivo a un piano di razionalità, che però non ce la fa a descrivere tutto. Poi parla di altri piani che: nulla hanno a che fare con un piano più strettamente razionale; tant’è che mi è difficile descriverli. Un senso più ampio (…) un lato, non so come definirlo, misterico, spirituale.
D., che partiva da un atteggiamento molto mentale di affrontare la realtà, dice di aver preso contatto con un piano differente, possiamo pensare che si tratti del piano transpersonale di consapevolezza, che a differenza di quello razionale, proprio della mente, è dotato di un senso più ampio, anche se difficile da dire a parole.
Conclusioni
Sintomo o malattia
Dalle testimonianze possiamo vedere che il corpo parla forte. Secondo la visione BTE (P.L. Lattuada 2012) l’organismo è espressione di un tutto interconnesso (almeno) su cinque livelli: fisico, energetico, emotivo e mentale e mentale superiore o spirituale. Attraverso ciò che si esprime su uno o più di questi livelli possiamo riconoscere cosa sta accadendo all’individuo nel suo insieme.
Le manifestazioni sui vari piani del corpo-mente sono altrettante “porte” che la psicoterapia BTE può aiutare ad aprire per favorire la guarigione psico-biologica e spirituale della persona.
Così come sono i diversi “corpi” ad ammalarsi e a risentire dei blocchi che hanno interrotto il flusso vitale, così è possibile ristabilire il Flusso del vivente, ritrovare armonia e benessere, proprio a partire da quelle manifestazioni che il paziente ci porta (P.L. Lattuada 2012).
Credo si possa constatare che nelle interviste le persone non hanno sentito il bisogno di etichette diagnostiche per descrivere il loro vissuto, o meglio, solo in pochi casi lo hanno fatto a inizio intervista, ma poi hanno incominciato a riferire la propria esperienza personale e se ne sono, per così dire, dimenticate.
Laddove altri professionisti avrebbero forse diagnosticato ai quattro pazienti disturbi d’ansia e dell’umore, depressione, disturbo di personalità, tendenza a spostare il disturbo sul piano somatico ecc., la BTE sceglie di non definire sindromi o disturbi psicopatologici, ritienendo che le etichette non servano e anzi possano compromettere il percorso di cura e guarigione della persona.
Come già accennato, il terapeuta transpersonale BTE conosce la nosografia psichiatrica e la usa, se necessario, per parlare e capirsi con i colleghi che fanno uso delle categorie diagnostiche, tuttavia ritiene che nel rapporto terapeutico l’uso delle etichette diagnostiche non solo non spieghi, ma non fornisca strumenti per la guarigione. A volte addirittura rappresenta di per sé una “condanna”, che rischia di definire la persona in modo categorico, definitivo. La definisce dall’esterno, con la terza persona, mentre ciò che conta è come sente e vive gli eventuali disturbi il paziente stesso, in prima persona. La BTE evita queste definizioni e ritiene che se la crisi o il disagio si presenta e la persona si ammala, fisicamente, psicologicamente o nell’anima, questo ha a che fare con il suo percorso di vita e con il processo evolutivo che la aspetta. La malattia può allora essere anch’essa uno strumento di crescita ed evoluzione.
Processo terapeutico
Come ho cercato di illustrare in precedenza il processo terapeutico avviene attraverso alcuni passaggi che qui analizzerò in relazione al modello della BTE.
Il primo passaggio è la disidentificazione. Intendo qui a presa di coscienza che la nostra idea di Io nasce da una falsa nozione dell’Essere, del nostro essere (L. Beccaluva, 2011):
A partire dalle acquisizioni della Psicologia dell’Io (H. Hartmann, 1978), i contenuti e i conflitti inconsci della visione freudiana perdono in parte interesse, mentre diventa centrale l’analisi delle difese. Proprio perché costitutive dell’identità, le identificazioni o difese, spesso si rivelano molto resistenti al cambiamento e tendono a non essere viste e riconosciute; questo avviene anche quando tradiscono le esigenze del corpo e lo fanno ammalare. Inoltre diventano coercitive: obbligano la persona a essere in quel modo, a qualunque costo e in tutte le circostanze. Le difese, in sintesi, non ci lasciano più liberi di scegliere. A questo punto l’individuo può accorgersi che per andare oltre è richiesto un lavoro. Il lavoro terapeutico, appunto. Secondo l’approccio BTE il lavoro terapeutico consiste proprio nell’ andare oltre le identificazioni, in altri termini le difese egoiche, per accedere al Sé. Le difese infatti non vanno abbattute o combattute, perché in certa misura ci servono, sono state una soluzione al trauma o alla carenza subita. Secondo la visione della BTE (P.L. Lattuada 2012), le strutture conservative dell’Io, sono da intendersi quindi, come un maestro e un alleato possibile; indicano infatti il percorso da fare, la qualità da richiamare per accedere al Sé, oltre le difese dell’Io.
Alla dis-identificazione è legato il secondo passaggio, cioé l’accettazione via via più ampia di parti e aspetti di sé precedentemente esclusi.
Le persone in vario modo testimoniano di un progressivo ampliamento delle aree di consapevolezza, che permettere loro sempre maggiore agio di vedersi e viversi in una prospettiva completamente nuova. Questa nuova visione di sé ha inevitabilmente delle ricadute in termini di benessere soggettivamente percepito, maggiore libertà di azione ed espressione.
Il processo terapeutico non viene descritto tanto su un piano razionale o come il risultato di una ristrutturazione cognitiva, ma come un cambio di stato.
La BTE descrive questo processo come un cambio di Transe (P.L. Lattuada 2012), ovvero cambio della modalità di stare nella relazione dinamica e interconnessa con un qualunque evento. Si realizza una trasformazione della coscienza che coinvolge l’intero Sé organismico, si verifica cioè su tutti i piani dell’essere, con la conseguenze di operare una ri-armonizzazione complessiva e globale. I pazienti infatti riportano che tale cambio di stato ha come risultato un ripristino di condizioni di armonia, benessere, fluidità. Contemporaneamente osservano una regressione della precedente condizione di conflitto e disarmonia.
Le trasformazioni della coscienza in BTE, operano nella linea dell’innalzamento del livello di energia, abbassamento del livello di tensione e conflitto, scioglimento dei “blocchi psico-fisici”, e quindi ripristino di condizioni di benessere e fluidità. Si tratta, potremmo dire in altri termini, del ripristino nell’individuo della Legge del vivente proprio della Dinamica Originaria, costituita dal ritmico alternarsi delle polarità opposte e complementari (P.L. Lattuada 2008)
Terapia come percorso evolutivo del Sé
Ritengo che le testimonianze evidenzino una progressione del viaggio di risveglio e consapevolezza, che sfocia inevitabilmente nella riappropriazione delle Qualità del Sé. Sgombrato il campo dai fardelli più grossi della storia personale, acquisito uno sguardo più ampio su di sé, c’è spazio per l’emersione di ciò che prima era sepolto dietro i blocchi psico-fisici o Transe Cronicizzati: le Qualità Transpersonali e Archetipiche.
Quando la persona, nel corso del processo trasformativo entra in contatto con una dimensione o qualità prima non conosciuta e, per così dire non ancora disponibile, non sperimentata, si aprono mondi prima sconosciuti, ad esempio quello della Fiducia anziché del sospetto, quello della Libertà, della spontaneità, della compassione ecc. Queste qualità emergenti che possono sembrare personalissime, secondo la visione BTE, attingono al flusso interconnesso delle Forze che animano l’Universo, le Forze Archetipiche del Sé transpersonale.
Secondo gli assunti del Metodo BTE, il viaggio evolutivo non può che essere un Processo totale; nella misura in cui opera trasformazioni a livello intrapsichico, a livello dei contenuti della coscienza, porta modificazioni anche all’esterno, nei comportamenti e nelle relazioni, così come nella visione delle cose e nella posizione che il singolo può permettersi di assumere nel mondo. Il soggetto, via via più libero da identificazioni che imprigionano le sue autentiche qualità, si trasforma in modo radicale e profondo.
Per come sembrano descriverlo i pazienti, pur nelle notevoli differenze individuali, il viaggio verso il Sé è un viaggio di trasformazione interiore e al tempo stesso esteriore.
Il viaggio verso il Sé sembra anche essere un cammino di scoperta; l’accesso al Piano del Sé, infatti avviene spesso attraverso intuizioni o insight, comprensioni immediate, che permettono alla persona di accedere a dimensioni del Sé prima sconosciute o ignorate. Di avere accesso, come dice Lattuada (P.L. Lattuada, 2010), al lato scordato delle cose e di sé stessi. Questo può essere colto solo attraverso un salto di coscienza, che permette di passare dalla prima Attenzione, tipica della mente ordinaria, alla seconda Attenzione, propria della mente Unitiva. Attraverso la Seconda attenzione, posso cogliere il lato scordato delle cose, oscurato dalla mia identificazione con esse o con il mio Io, identificato con la mente e la sua modalità che separa e giudica.
Vediamo, in conclusione, che il viaggio trasformativo della coscienza, che la terapia transpersonale consente, va ben oltre al viaggio terapeutico di trasformazione “personale” che ogni paziente auspica a inizio percorso, spingendolo inevitabilmente e progressivamente nei territori del Sé traspersonale, per definizione infiniti.
BIBLIOGRAFIA
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Hartmann, H. (1978). Psicologia dell’io e problema dell’adattamento. Programma di Psicologia Psichiatria Psicoterapia. (2nd ed.)Torino, To: Bollati Boringhieri.
Hillman, J. (2011). Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino. (5fth ed.). Milano, Mi: Adelphy.
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Lattuada, P. (2008). L’arte medica della guarigione interiore. Basi psicobiologi che e metodologia clinica. (1st ed.) Milano, Mi: Franco Angeli.
Lattuada, P (2004). Oltre la mente. Teoria e pratica della psicologia transpersonale. (1st ed.) Milano, Mi: Franco Angeli.
Lattuada, P. (2012). Second Attention Epistemology: Integral Process Evaluation Grid (III part). Integral Tranpsersonal Journal, voI, 2, 9-25.
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