Per millenni la malattia è stata considerata un fenomeno magico-religioso, solo nella Grecia antica, con Ippocrate, si ha finalmente una medicina razionale fondata sull'osservazione. In seguito le concezioni di salute e malattia sono rimaste “non scientifiche” fino agli ultimi secoli. Con la nascita della medicina scientifica (alla fine del Settecento), nasce il modello bio-medico in concomitanza con la nascita della società industriale; tale modello si occupa più della malattia che non della salute e delle condizioni di vita e lavorative della popolazione. Nel XX secolo si sviluppa uno specialismo esasperato per cui l'individuo arriva quasi ad essere identificato con una sola "parte", "un organo", rischiando così di negare, e a volte negando di fatto, l'individuo come persona.
Oggi invece l'attenzione si è spostata dal concetto di malattia a quello di salute, per il quale è opportuno fare riferimento alla Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che definisce la salute come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia" e viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone. Gli Stati, dunque, dovrebbero farsi carico di individuare e cercare, tramite opportune alleanze, di modificare quei fattori che influiscono negativamente sulla salute collettiva, promuovendo al contempo quelli favorevoli. La definizione di salute proposta dall'OMS è allora molto impegnativa per diversi aspetti e la sua traduzione in termini operativi e soprattutto in azioni, ha sempre suscitato riflessioni, dubbi, discussioni, ma rimane ancora un punto di partenza e di riferimento.
Rispetto a tale definizione, la patologia oncologica (così come altre del resto) con i suoi risvolti individuali, familiari e sociali sembra così irrimediabilmente essere condizione opposta a quella di salute. Facendo però riferimento ai sensibili cambiamenti tra la pubblicazione dell’ICIDH (Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps) e quella dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), si può esaminare la situazione da un altro punto di vista, passando cioè dal modello bio-medico a quello bio-psico-sociale. Il concetto di salute globale ivi proposto, porta con sé una concezione della persona come unità psico-fisica interagente con l'ambiente circostante, che è il presupposto per "una promozione ed educazione alla salute" e una "medicina della persona" nella sua totalità.
A partire da ciò la proposta per curanti e per i pazienti, potrebbe essere quella di superare l'idea di malattia come perdita della salute. Una possibilità in questo senso, si configura leggendo l'evento malattia attraverso il concetto di CRISI. Se guardiamo anche solo all'etimologia di tale termine si apre infatti uno scenario diverso: Crisi dal greco KRISIS che tiene a KRINO, cioè separo – momento che separa una maniera di essere o una serie di fenomeni da un'altra differente. Differente dunque, non peggiore o migliore. Allora forse è plausibile pensare ad un lavoro che tenda alla possibile trasformazione della vecchia concezione della malattia, per passare ad una che la intenda come un passaggio da uno stato di salute ad uno differente, che necessita di particolari attenzioni. E di conseguenza dunque, non più una salute data, ma una di cui l'individuo e le istituzioni ad essa dedicate in primis, si assumano la responsabilità.
L'ottica di lavoro che ne deriva, guarda allora necessariamente più alle risorse piuttosto che alle manifestazioni patologiche. La malattia come perdita della salute e il ricovero ospedaliero come separazione di un membro dalla propria famiglia, possono perdere così tali connotazioni per acquisire il senso di momento di potenziale trasformazione da un assetto precedente ad uno attuale e successivo. Del resto è importante sottolineare come momenti di crisi che comportano rottura, separazione e perdita attraversino in realtà la vita umana quasi quotidianamente, in forma e modalità differenti per ogni persona e sistema familiare. La separazione e la perdita legate all'evento malattia, dovrebbero perciò essere ricondotte alle altre che hanno già fatto parte o ne faranno, della vita di ciascuno e di ciascun sistema familiare e gruppo sociale. Questo implica, intuitivamente, la conoscenza profonda di tutte queste entità.
La patologia oncologica da diversi decenni ha catalizzato un’attenzione particolare non solo medica, ma anche psicologica, tanto da far nascere e sviluppare una specifica branca chiamata “psiconcologia”, definibile come l’insieme di competenze cliniche e di ricerca aventi come area principale di interesse la dimensione psicologica del cancro. La prospettiva psicosociale in oncologia nasce fondamentalmente negli ultimi trent’anni, quando definisce i limiti del proprio ambito e diventa così una disciplina a sé stante. La psiconcologia si pone come disciplina specifica "di collegamento" tra l'area oncologica e quella psicologico-psichiatrica nell'approccio al paziente con cancro, alla sua famiglia e all'équipe che di questi si occupa. Gli obiettivi specifici nell'area della prevenzione e della diagnosi precoce, della valutazione e del trattamento delle conseguenze psicosociali del cancro e della formazione del personale, vengono oramai proposti nei diversi Paesi come punti centrali dell'intervento in oncologia.
Al giorno d’oggi però potrebbe risultare fuorviante parlare di psiconcologia come se si trattasse appunto di una disciplina diversa come basi, approcci ed interventi da quelli della psicologia e in particolare della psicologia clinica, che trova da qualche anno faticosamente spazio di pensiero e di operatività all’interno di importanti realtà ospedaliere italiane. La domanda infatti rimane aperta: il modello della mente utilizzato nello studio e nell’approccio al malato oncologico differisce da quello di qualsiasi altro malato? E quello dei malati da quello delle persone cosiddette “sane”?
L’attenzione dedicata nello specifico a tale patologia nei suoi risvolti psicologici, ha permesso che studi ed indagini su tale argomento iniziassero e proliferassero (vedi ad esempio quelli sulla “personalità da cancro”1), anche qui con il rischio, anticamente medico, di una parcellizzazione eccessiva. Le differenze, per esempio, tra tumore al colon o al seno, se da una parte ci orientano perché genericamente interessano parti e funzioni corporee diverse (che interessano e riflettono un’immagine e uno schema corporeo mentale), dall’altra rischiano una ricaduta su trattamenti proceduralizzati, che non fanno altro che perdere la visone d’insieme della persona promossa oggi dall’ICF e dunque ripresa in considerazione anche in campo medico.
Possiamo però sicuramente riconoscere il valore di alcune linee guida che dai numerosi studi hanno preso corpo. E’ impossibile non citare, ad esempio per l'oncologia, la suddivisione in fasi proposta da Elisabeth Kubler Ross: il suo modello a cinque fasi2 (negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione), elaborato nel 1970, rappresenta uno strumento che permette di capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia terminale, come a volte risulta essere il cancro o comunque viene considerato tale nella rappresentazione sociale ed individuale (ma gli psicologi hanno constatato che esso è valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto anche solo affettivo e/o ideologico). Da sottolineare che si tratta di un modello a fasi, e non a stadi, per cui le fasi possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni non seguono regole particolari, ma anzi come si manifestano, così svaniscono, magari miste e sovrapposte.
Al contempo, sono state studiate le reazioni dei familiari: la malattia infatti irrompe all’interno del sistema familiare, ne ridefinisce ruoli e funzioni, scardina gli equilibri preesistenti. La reazione all’evento da parte della famiglia risulta essere parallela al decorso della malattia del paziente, distinguendosi anch'essa in fasi (shock, negazione, accettazione), non coincidenti comunque con quelle del soggetto in cura. Possiamo analizzare infatti l’impatto della malattia sul rapporto di coppia nel caso di neoplasia di uno dei membri, l’effetto sui figli nel caso di malattia di un genitore o gli effetti su genitori e fratelli nel caso di patologia dell’età infantile. Inoltre si possono individuare diversi aspetti che si vanno ad intrecciare e creano in modo complesso la reazione del nucleo familiare alla neoplasia:
-Stadio dello sviluppo della famiglia: la famiglia, come un individuo, "cresce" nel corso del tempo. Anche se mediamente un nucleo con maggiore "anzianità di servizio" è più solido, esso non è a riparo da problematiche interne dovute al dramma che sta vivendo, logicamente nuclei di diversa età avranno in tendenza reazioni differenti.
-Organizzazione familiare: le principali modalità di funzionamento familiare sono due ma racchiudono tra loro le più svariate alternative. La prima modalità è l’ipercoinvolgimento, la famiglia tenderà in questo caso ad essere iperprotettiva e invadente nei confronti del malato e dello staff medico. La seconda modalità è il distacco che comporta scarsa partecipazione e disinteresse nei confronti del membro malato. La struttura familiare ottimale è nel mezzo di questi due tipi e presenta caratteristiche di coesione ed intimità, espressione aperta delle emozioni, mancanza di conflitti importanti etc.
-Storia familiare: ciascuna famiglia articola, nel corso della sua esperienza, convinzioni e modalità di risposta agli eventi, ciò determina la storia della famiglia stessa. La reazione della famiglia a precedenti eventi ad alto impatto emotivo e le possibili precedenti esperienze di perdita influenzano il modo di risposta del congiunto sano alla malattia. La situazione è più complicata se la storia familiare è costellata da perdite e lutti per cancro, poiché più difficile risulterà la gestione delle problematiche e dei cambiamenti legati alla malattia. Un ulteriore fattore favorente la comparsa di disturbi dell’adattamento alla neoplasia è la presenza di problemi psicopatologici individuali e/o familiari quali crisi, discordie nella coppia, modelli comunicativi disfunzionali etc.
-Variabili culturali e supporto sociale: le variabili culturali (popolazione d’origine, costumi e tradizioni, religione) influenzano lo stile comunicativo all’interno della famiglia, l’adattamento al cancro, la relazione con lo staff e le istituzioni. Studi sul supporto sociale hanno da tempo sottolineato come la possibilità di ricevere aiuto dalle relazioni interpersonali faciliti il superamento delle difficoltà collegate agli eventi stressanti. Il supporto che i familiari percepiscono dalle strutture oncologiche e dei servizi sanitari rappresenta dunque una variabile importante, che implica una maggiore attenzione al significato affettivo, informativo e pratico che assume la relazione tra staff e famiglia.
Nel caso in cui siano necessari uno o più ricoveri, ma anche solo per controlli e Day Hospital, non è possibile non considerare quanto l'Ospedale attivi inevitabilmente rappresentazioni specifiche di malattia, fantasie di perdita, di separazione e anche di morte: un contesto dove paziente e familiari possono sperimentare un sentimento di forte perdita del controllo, sulla propria vita, sulla propria salute. L'Ospedale richiama e necessariamente attiva la percezione di un contesto strutturato e strutturante, organizzato e organizzante, con regole e limiti dell’agire personale, che definiscono ruoli e responsabilità, spesso differenti da quelli di cui sono portavoce i membri della famiglia.
In ogni struttura sanitaria si dovrebbe dunque considerare in misura sempre maggiore l’opportunità di un coinvolgimento pieno dei familiari non solo nelle fasi di comunicazione diagnostica, ma anche della pianificazione delle cure e dell’eventuale fallimento di queste. Il riavvicinamento alla famiglia dovrebbe essere basato sul presupposto che la famiglia rappresenta un potente strumento "terapeutico o co-terapeutico" che può agire tanto più efficacemente, quanto più è aiutata a superare le difficoltà.
Norme basilari per agire ed interagire con il sistema paziente-famiglia sono: l'istituzione di un sistema terapeutico multidisciplinare caratterizzato dalla collaborazione attiva fra le diverse figure professionali e dall’integrazione fra le competenze (tale sistema dovrà interagire con quello paziente-famiglia); una buona conoscenza delle variabili "critiche" chiamate in causa nella reazione emozionale della famiglia alla malattia oncologica; l'apertura della struttura alla presenza dei familiari. Se la famiglia può confrontarsi con più esperti (oncologo, psichiatra, infermieri, chirurgi, psicologi) può aumentare la sensazione dei familiari di un sistema a rete che protegge e sostiene.
Benché il lavoro in équipe sia più faticoso i vantaggi che derivano dall’integrazione dei compiti, dallo scambio di informazioni, dall’appoggio che ciascun membro può dare all’altro, dovrebbe rappresentare un punto fermo dell’attività clinica.
1 Morris, Greer, Grossarth-Maticek, Temoshok.
2 Elisabeth Kübler-Ross, On death and dying, Macmillan, 1969. Riedito come On Death and Dying. What the Dying Have to Teach Doctors, Nurses, Clergy and Their Own Families, Taylor & Francis, 40ª ed. 2008. Trad. it.: La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976. 13ª ed.: 2005.
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento