Negli ultimi tempi, data anche la tragica situazione che stiamo vivendo ormai da due anni, è sempre più in voga l'uso del termine "resilienza" per motivare le persone, ormai stremate da privazioni quotidiane, paura del contagio e terrorismo mediatico, a guardare questo momento di crisi globale come un'opportunità, un momento al quale, adattandosi, possa poi essere un precursore di scenari diversi e migliori.
Personalmente sono convinta che in ogni crisi può emergere un'opportunità, ma non credo che essere resilienti sia il modo migliore per cogliere il buono ed il trasformativo che si nasconde anche negli eventi più traumatici.
Resilienza, come ci insegna l'etimologia, deriva dal latino resilire, che si forma dall’aggiunta del prefisso re- al verbo salire ‘saltare, fare balzi, zampillare’, col significato immediato di ‘saltare indietro, rimbalzare'.
In fisica la resilienza è la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione elastica; l’esempio più semplice è quello delle corde della racchetta da tennis, che si deformano sotto l’urto della pallina, accumulando una quantità di energia che restituiscono subito nel colpo di rimando. Per estensione, in psicologia essa indica la capacità di recuperare l’equilibrio psicologico a seguito di un trauma, l’adattabilità.
La resilienza è quindi la capacità che un organismo ha di ritornare all'omeostasi precedente, a seguito di un danno subito.
Non indica la capacità di evolvere, cambiare, trasformarsi a seguito di eventi dannosi, ma il ripristino delle condizioni precedenti.
Come se l'esperienza, l'incontro con quell'oggetto, quell'evento, quella relazione, non lasciasse traccia nella mente e nel cuore della persona.
Ritornando alla fisica, la resilienza, come qualità dei materiali, è il contrario della fragilità, che caratterizza invece materiali dotati di carico di elasticità molto prossimo alla rottura.
Ecco, la rottura, ciò che è così ossessivamente evitato con il ricorso maniacale alla resilienza.
Personalmente ritengo che essere capaci di lasciarsi frantumare, di essere fragile, sia un'enorme abilità dal grande potenziale.
Se non rompessimo, se l'equilibrio a volte così faticosamente raggiunto non si perdesse, non si darebbe neanche la possibilità di crescere. E di cambiare.
Rompersi è lasciare la porta aperta all'influenza dell'altro che, con la sua forza, o con il suo amore, è capace di creare una breccia nel nostro solido e granitico Io e renderci diversi da ciò che noi stessi pensiamo di noi.
Rompersi è il primo passo, e non l'ultimo, nel processo evolutivo.
Se adottiamo quest'ottica, allora diviene chiaro che a tutto ciò che ci sta capitando non bisogna essere resilienti. Bisogna lasciarsi attraversare e farci rompere, farci fare a pezzi.
Bisogna offrire al mondo la propria fragilità, senza paura.
Perché soltanto quando perdo l'equilibrio e mi sento perso, allora ciò che è esterno lascia dentro di me un'impronta che posso fare mia per costruire un altro me.
Un altro me che nasce dalle macerie di una realtà vissuta e a cui non resisto, né nego.
Vi auguro, perciò, di essere fragili.
La resilienza, lasciatela alle cose senz'anima.
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento