AION Psicoterapie e SPIELZEIT: riflessioni sulla psicoterapia e l’individuazione
attraverso il lavoro con i bambini disabili.
“Solo il vero Sé può essere creativo e solo il vero Sé può sentirsi reale”.
Ho deciso di introdurre l’argomento del seminario di oggi con questa citazione di Winnicott in quanto mi rimanda inevitabilmente al concetto di creatività della Psicoterapia della Gestalt, e facendo parte dell’Associazione Italiana Gestalt Analitica credo che un accenno alla parte gestaltica della nostra formazione sia doveroso.
Zinker, ad esempio, in Processi creativi in psicoterapia della gestalt afferma che il processo psicoterapeutico non può essere governato da regole e principi rigidi, ma è un processo creativo in cui sia il paziente che il terapeuta sono co-creatori del cambiamento del paziente.
Questo vale per il classico cliente di uno studio di psicoterapia, il nevrotico.
Ma cosa accade se l’utente è un portatore di handicap, un disabile grave e nello specifico un bambino con queste problematiche?
Ciò che accade è che, generalmente, l’esperienza di gravi deficit fisici crea automaticamente illusioni su un’apparentemente distorta ( o ridotta) totalità delle operazioni psichiche, ovvero il Sé.
Per cui, in Italia, gli utenti di questo tipo vengono definiti “non curabili” da un punto di vista psichico e vengono trattati a livello psicologico con metodi più prettamente cognitivo comportamentali che spesso mirano esclusivamente ad eliminare il sintomo e rimodellare il paziente che viene considerato destinatario passivo di una corretta riabilitazione educativa e formativa, per ottenere quella che, si pensa, dovrebbe essere la maggiore adattabilità alla “normalità” rispetto i canoni sociali di riferimento.
Questo avviene perché i pazienti giungono nei centri con una diagnosi specifica (che fa presto a trasformarsi in etichetta) alla quale si applica un modello pressoché universale.
Anche se parlava della nevrosi, Jung ha affermato che “ogni rimedio è giusto non per quella nevrosi ma per quella persona”, e Hillman aggiunge che una diagnosi non dice cosa una persona abbia o chi una persona sia; una diagnosi descrive solamente un quadro clinico. E’ implicito in queste citazioni lo spostamento dell’attenzione dai sintomi, intesi come disturbi da eliminare, alla personalità come realtà umana da accompagnare in un processo di trasformazione.
Qui entra in gioco l’individuazione; parlare di diagnosi, infatti, esclude il concetto di individuazione intesa come processo intrinseco di de-itegrazione e re-integrazione del Sé, processo che non ha un inizio perché è intrinsecamente presente fin dall’inizio di ogni nuova vita.
Intervenire con tecniche meramente educative e riabilitative vuol dire affermare a quel paziente “sei essenzialmente incurabile” dove essenzialmente è inteso in termini filosofici e derivante da “essenza”, il che equivale a dire che l’essenza del paziente, la sua anima, è incurabile. Equivale a dire a questi piccoli pazienti che a livello strutturale non sono sufficientemente psichici.
Per cui dobbiamo soffermarci sulla differenza tra il non essere in grado di eseguire qualcosa e casomai essere formati e sagomati per tale prestazione, e non essere intrinsecamente sufficientemente psichici, dove la prima affermazione ha a che fare con quello che Winnicott chiama “Falso Sé” e la seconda con ciò che l’autore definisce “Vero Sé”, l’affermazione del Sé, il divenire se stessi. Questo è il “modello” di base di Spielzait, attualmente adottato anche in Italia presso il centro clinico AION Psicoterapie, lo stesso che nella mia esperienza con la disabilità sto cercando di seguire, un principio che lascia la base sicura della diagnosi su cui forgiare e modellare un Falso Sé che adatti il più possibile questi piccoli pazienti ad uno stile di vita normale a favore del lavoro reale con il vero Sé di ognuno di loro.
Dr.ssa Valeria Basile
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