Difficile definire cosa sia la solitudine. Ciascuno di noi ha provato almeno una volta nella vita un sentimento profondo di essere staccato, separato dall'altro, senza legami, incompreso, smarrito. Ma per ciascuno di noi esistono diversi modi di vivere e agire la solitudine.
Lucio Dalla cantava "Quante volte da bambino ho chiesto aiuto, quante volte da solo mi sono perduto, guardando le stelle ho chiesto di capire come entrare nel mondo dei grandi senza paura di morire come uno zingaro seduto su un muro".
Questa frase descrive bene il senso comune della solitudine, il sentirsi smarriti e senza punti di riferimento.
La solitudine è una caratteristica dei tempi nostri. E' una condizione ontogenetica che si è sviluppata di pari passo con l'evoluzione filogenetica del genere umano.
Gli uomini primitivi vivevano in tribù, in cui ciascuno aveva il suo ruolo e un suo essere per l'altro.
Nelle società matriarcali e patriarcali le condizioni erano simili: ciascuno provvedeva al sostentamento dell'altro e i bambini crescevano, spesso nella stessa casa dei nonni, circondati da zii, cugini. Vigeva il principio della collettività, si era immersi in una rete smisurata di relazioni sociali ed era impossibile sentirsi soli.
Negli ultimi decenni, invece, si è assistito a una corsa sempre crescente verso l'individualismo e l'autoaffermazione. E questo ha comportato la compartimentazione dei nuclei familiari. Tanto che oggi, secondo i dati Istat, l'11,3% di nuclei familiari italiani è costituito da famiglie monogenitoriali (con un genitore e figlio/i).
Si è assistito dunque a un impoverimento della rete relazionale e affettiva e anche ad un impoverimento della qualità dei legami affettivi. Ad esempio, oggi i bambini, per necessità che la società impone, vengono lasciati in asili nido o affidati a baby-sitter, instaurando dunque relazioni più professionali che affettive.
Dunque, la base del senso profondo dell'esistenza, ovvero l'essere in relazione con l'altro, si sta evolvendo nella direzione di un senso di non connessione interna (Cit. Prof. Maurizio Stupiggia).
La solitudine, nel 15%-30% della popolazione attuale, è uno stato cronico e ha conseguenze sulla cognizione, sulle emozioni, sul comportamento e sulla salute.
In sostanza possiamo dire che la non relazione produce infelicità e malattia.
Alcuni studi scientifici lo dimostrano.
Un gruppo di ricercatori della Brigham Young University a Provo, Utah, ha valutato quanto l’assenza di rapporti può condizionare la salute fisica. Ed è arrivato alla conclusione che le relazioni sociali aumentano le probabilità di sopravvivenza del 50 per cento.
I ricercatori americani hanno anche potuto confrontare l’impatto dell’isolamento sociale sulla mortalità rispetto ad altri fattori di rischio ben più conosciuti. E hanno scoperto che quest’ultimo non solo è due volte più pericoloso dell’obesità, ma equivale a fumare 15 sigarette al giorno o ad abusare dell’alcol ed è più dannoso della mancanza di esercizio fisico.
Inoltre, secondo Holt-Lunstad quando una persona intrattiene relazioni con gli altri si sente in qualche modo responsabile per loro ed è stimolata a prendersi cura di sé e a evitare situazioni di rischio per la propria salute. L’effetto protettivo delle relazioni non vale soltanto per gli adulti o gli anziani, ma in qualsiasi periodo della vita.
Altri studi hanno dimostrato che una forte rete sociale rallenta la progressione dell’ Alzheimer, mentre una rete sociale scarsa aumenta il rischio di infarto in pazienti obesi e ipertesi.
Ci sono evidenze che suggeriscono che le persone religiose che vivono più a lungo sono quelle che frequentano la chiesa più spesso e non quelle che hanno una fede più profonda, in altre parole non è la fede che le tiene in vita più a lungo, ma le persone in relazione.
NEUROFISIOLOGIA DELLA SOLITUDINE
L'isolamento sociale ed emozionale aumenta la percezione di minaccia e la vigilanza, i sentimenti di vulnerabilità, la possibilità di ammalarsi e la mortalità. Diminuisce la qualità del sonno.
La solitudine aumenta il rischio di malattie cardiovascolari, aumenta la pressione sanguigna, i livelli di colesterolo, la concentrazione di emoglobina glicata. Aumenta il livello di cortisolo (ormone dello stress) nel sangue e nella saliva e aumenta i tassi di infiammazione.
E' stato ipotizzato che l'isolamento sociale produce una variazione nella trascrizione del DNA, cioè cambia il nostro DNA cellulare.
Dunque la nostra umanità è un'umanità relazionale (Cit. Prof. Maurizio Stupiggia).
Vi è, inoltre, connessione tra depressione e isolamento. L'isolamento sociale è un fattore predittivo della depressione: più siamo isolati più siamo a rischio di depressione.
LA RELAZIONE TERAPEUTICA CHE CURA
Dunque le relazioni hanno un elevato potere curativo.
Anche in terapia, un fondamento della buona riuscita del lavoro clinico è proprio la relazione terapeuta paziente.
La relazione è ciò che permette all'altro di essere capito e riconosciuto. Quando e se questo avviene in terapia, il paziente sperimenta una nuova forma di essere con l'altro, sperimenta la fiducia, una base sicura, una guida, in sostanza il non essere solo. Questo gli consente di trovare nuove strategie di autoregolazione e nuove forme di valorizzazione di se stesso.
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento