Nessuno per cui avere compassione?
Karuṇā e anattā dal buddhismo alla psicologia analitica
Dalla compassione alla non sostanzialità dell’ego nel buddhismo
La tradizione buddhista racconta che un giorno il Buddha si recò in uno dei monasteri in cui vivevano i suoi monaci e trovò uno di essi riverso a terra in mezzo ai propri escrementi perché affetto da una malattia intestinale mortale. L’Illuminato lo lavò, lo cambiò e lo adagiò nel proprio letto, dicendo poi agli altri monaci:
«Se non vi curate reciprocamente, chi lo farà? Chiunque desideri occuparsi di me, si occupi degli infermi» (Vinaya, I, 301-302).
Quello di “compassione” – karuṇā in sanscrito – è uno dei concetti fondamentali del Buddhismo.
La “Grande compassione” (mahakaruṇā) è una delle principali qualità dell’Illuminato ed è, nel Buddhismo Mahāyana, preferibile addirittura al nirvāṇa; la compassione è uno degli aspetti basilari dell’ascetica ed è uno dei quattro esercizi spirituali raccomandati dalla tradizione insieme a misericordia (maitrī), gioia (muditā) ed equanimità (upekṣā) (Dīgha Nikāya, II, 196; III, 220).
La compassione è anche uno dei più importanti conseguimenti della meditazione: chi medita,
«rigettati i desideri del mondo, dimora colla mente priva di desideri (…), rigettato l’astio, dimora con un animo privo di malevolenza, verso tutti gli esseri viventi amico e compassionevole» (Dīgha Nikāya, II).
Quando la “buddhità” e la calma perfetta sono state raggiunte, karuṇā, l’amore disinteressato per il prossimo, è un corollario che entra a far parte della natura di chi si è “realizzato” (cfr. Panikkar R. (1970): Il silenzio di Dio, tr. it. Roma: Borla, 1992, p. 278-279).
Anche a chi non ancora non è arrivato all’illuminazione, la pratica della compassione garantisce una felice rinascita:
«una donna o un uomo, rigettando la distruzione della vita, (…) avendo deposto la mazza, avendo deposto la spada (…) dimora sensibile, pietoso e compassionevole per tutti gli esseri viventi. Egli per tale azione (…) con la dissoluzione del corpo, dopo la morte, rinasce su un buon cammino, in un mondo celeste. E, se non riesce lassù e raggiunge l’umanità, egli diviene, come ivi rinasce, di lunga vita. Questo è il passaggio (…) che conduce a lunga vita: rigettare cioè la distruzione della vita (…), dimorare sensibile, pietoso, amichevole e compassionevole per tutti gli esseri» (Majjhima Nikāya, III, p.202).
Senza bisogno però di attendere una rinascita, anche nel presente, come insegna il Buddhismo tibetano, l’esercizio di karuṇā, intesa come compartecipazione interiore alle gioie e ai dolori degli altri e soprattutto come pietà illimitata, può aiutare a comprendere l’uguaglianza e l’unità essenziale di tutti gli esseri, nel completo abbandono di se stessi (cfr. Lama Govinda (1960): I fondamenti del misticismo tibetano, tr. it. Roma: Ubaldini, 1972, p. 36, 81, 118).
Quello dell’abbandono di se stessi è un concetto che merita un approfondimento, poiché è intimamente legato al tema della compassione ed è centrale nel Buddhismo. L’idea di sé va abbandonata perché, secondo il Buddhismo, è semplicemente illusoria. Ed è proprio l’illusorietà, la non sostanzialità dell’ego individuale ad essere alla base della compassione.
Il Buddhismo utilizza una parola specifica per indicare la non sostanzialità dell’ego: si tratta del termine pali anattā, in sanscrito an-ātman, traducibile letteralmente come “non-sé”.
La credenza nell’ego individuale è
«falsa e immaginaria, (…) non ha corrispondenza nella realtà ed è la causa dei pericolosi pensieri di ‘me’ e di ‘mio’, dei desideri egoisti e insaziabili, dell’attaccamento, dell’odio, della malevolenza, della vanità, dell’orgoglio, dell’egoismo» (Rahula W. (1959): L’insegnamento del Buddha, tr. it. Roma: Paramita, 1984 p. 79).
Il “sé”, per il buddhismo, non esiste, è solo “gioco di māyā”, è un’espressione parziale e al contempo un riflesso olistico dell’indivisibile unità dell’esistente. La meditazione buddhista, attraverso l’esperienza dell’impermanenza (in pali: anicca), sradica le convinzioni sulla presunta oggettività e separatezza della mente, del corpo e della vita: meditando, si esperisce come non sia realmente possibile identificare il “sé” né con il solo corpo (soggetto a deperimento), né con la sola mente (in continuo mutamento e sempre necessitante di rapportarsi con altro da sé), né con i soli pensieri o le sensazioni (perennemente mutevoli). Questi concetti sono esplicitati già dai testi buddhisti più antichi, i Nikāya: poiché il corpo, le sensazioni, la percezione, la coscienza sono mutabili, dolorosi, caduchi, di conseguenza
«ogni corpo (…) ogni sensazione (…) ogni percezione (…) ogni coscienza è da considerarsi, conforme alla verità, con perfetta sapienza, così: ‘Ciò non mi appartiene, ciò non sono io, ciò non è me stesso’» (Majjhima Nikāya, III parte, II discorso, XXII, p.214-217).
«‘Tutti i fenomeni sono privi di un sé’. Riguardo a ciò un Illuminato è pienamente consapevole» (Ańguttara Nikāya, III, XIV, § 134, p.265).
«Che ci si sciolga dalla vanità dell’“ego”, questa è la suprema felicità» (Khuddaka Nikāya: Udāna, Cap. II, § 1, p.162).
Nel Milindapanha, testo del IV sec., l’ego è paragonato dal saggio monaco Nagasena a un carro:
«È forse il timone il carro? (…) Sono le ruote il carro? (…) È il telaio il carro? (…) Sono l’asta della bandiera, il giogo, le redini, i raggi delle ruote, la frusta il carro? (…) Sono forse (…) tutte queste cose insieme il carro? (…) No (…) ma (…) è a causa del timone, del mozzo, delle ruote, del telaio, dell’asta della bandiera, del giogo, delle redini, (…) della frusta che il carro esiste come un modo di indicare, di chiamare, di designare un termine che dipende dall’uso corrente (…). E anche così è per me. Ed è per i capelli della testa, i peli del corpo… per la forma materiale, le percezioni, le strutture psichiche e la coscienza che Nagasena esiste come un modo di indicare, di chiamare, di designare un termine che dipende dall’uso corrente. (…) Come quando le parti sono giustamente riunite insieme si può parlare che esista il carro, così dove sono gli aggregati si può parlare che esista un essere» (Milindapanha, tr. it. Roma: Ubaldini, 1982 p. 43-45).
Si può quindi parlare di “Io” o di “Sé” facendo di questi termini un uso meramente convenzionale, con cui rifererirsi agli impermanenti aggregati che compongono ciò che designiamo con tali parole. Un’altra celebre metafora è quella in cui l’ego è comparato al suono prodotto da uno strumento musicale, la vīṇā, da cui un sovrano, ascoltandolo per la prima volta, resta deliziato.
«Gli viene mostrato lo strumento, ma quello che lui vuole è il suono. La gente gli dice che la vīṇā “parla poiché è composta di varie parti”, ma il sovrano insiste a voler vedere la parte che è la musica, così rompe lo strumento in tanti pezzettini e infine lo brucia – ma non trova la musica. Nello stesso modo un monaco indaga sul corpo, sulla sensazione, sull’ideazione, sui processi creativi, sulla coscienza… ma non trova niente di simile a un’io’ o un ‘mio’ o un ‘io sono’» (Johansson R. E. A. (1978): La psicologia dinamica del buddhismo antico, tr. it. Roma: Ubaldini, 1980).
Il nostro illusorio ego è solo un transitorio effetto dell’interrelazione fra le innumerevoli parti che compongono il Tutto, tutte a loro volta prive di sostanzialità e interagenti tra di loro in un processo continuo di “produzione reciprocamente condizionata” (in pali, paticcasamuppada).
Liberarsi dall’illusione dell’ego significa liberarsi da ignoranza, attaccamenti, sofferenze, desideri smodati di possesso, egoismi. L’effetto psicologico derivante da una comprensione profonda della teoria dell’anattā, è quello di un completo cambio di prospettiva: l’asse attorno al quale si snodano tutte le azioni non è più il proprio piccolo sé da difendere; l’esistenza non è più un heideggeriano essere gettati nel nulla, ma diventa il rassicurante appartenere ad un ordine cosmico; gli altri non sono più nemici da cui difendersi o sui quali imporsi, ma manifestazioni del Tutto a cui si è indissolubilmente legati, come parti di un medesimo organismo.
L’indicazione pragmatica che ne deriva è proprio quella di agire la compassione (karuṇā) intesa come benevolenza verso tutti gli esseri viventi, come amore e bontà senza discriminazione, come non-violenza (ahimsā) quale obbligo non solo di non uccidere ma anche di non offendere con parole, gesti o atteggiamenti qualsiasi essere vivente: karuṇā va quindi interpretata come compassione attiva ed è la conseguenza logica ed etica della teoria dell’anattā.
La non sostanzialità dell’ego nelle psicologie contemporanee
L’idea della non sostanzialità dell’“io” individuale, della sua convenzionalità, della sua esistenza solo come nodo in una rete di interrelazioni, della sua dipendenza da un ordine cosmico superiore, comincia a comparire anche nella psicologia occidentale. Ad esempio, la psicoterapia della Gestalt, riportando millenni dopo lo stesso esempio del carro esposto nel Milindapanha, critica la supposizione secondo cui
«qualcosa chiamato “sé” (…) esiste (…) precedentemente a (e separatamente da) le relazioni (…). In verità, noi (…) non esistiamo indipendentemente da un campo o contesto» (Wheeler G. (1998): Per un modello di sviluppo in psicoterapia della Gestalt, in Righetti P. L. (2005): Psicoterapia della Gestalt, Padova: Upsel Domeneghini, p. 95-96).
Bateson affermava la coappartenenza della mente individuale a un ordine mentale superiore, sottolineando che
«la mente individuale è immanente ma non solo nel corpo (…) ed esiste una mente più vasta di cui la mente individuale è soltanto un sottosistema. Questa mente più vasta è paragonabile a Dio e forse è proprio ciò che alcune persone intendono con Dio» (cit. da Pagliaro G., Martino E. (2003): Il Tao della salute, Padova: Upsel Domeneghini, p. 39).
Ma l’ego teorizzato dal buddhismo come illusorio è tale non solo perché è un sottosistema o un semplice nodo in una rete di relazioni che lo connettono all’esterno; la non sostanzialità dell’ego implica anche l’assunto che pure al suo interno esso sia costituito da una rete di molteplici relazioni fra gli aggregati che lo compongono: l’ego, quindi, benché non sostanziale, è costituito da una molteplicità interna. Anche in occidente, alcune correnti psicologiche criticano la pretesa monoliticità del sé individuale: è perfino banale ricordare le divisioni ravvisate da Freud in Es, Io, Super-Io o in conscio, preconscio, inconscio. In tempi più recenti, la psicologia interazionista asserisce che la coscienza umana
«è decentrata, potenzialmente plurima e dissociabile» (Pagliaro G.(2004): Mente, meditazione e benessere, Milano: Tecniche Nuove, p. 83).
«Attraverso la teoria interazionista (…) è stato possibile accertare (…) il concetto di una personalità costituita da una pluralità di sé» (Salvini A. (1998): Argomenti di psicologia clinica, Padova: Upsel Domeneghini, p. 53).
Anche l’analisi transazionale ipotizza che l’Io sia tutt’altro che solido, conchiuso e unitario; al contrario, lo teorizza come dissociabile e plurale: Berne codifica la “dissociabilità dell’Io”, individuandone tre stati o modalità di funzionamento, ossia lo stato dell’Io Adulto, Bambino e Genitore (A, B, G) che rappresentano sistemi coerenti di pensiero, sentimento e comportamento (cfr. Berne E. (1961): Analisi Transazionale e psicoterapia, tr. it. Roma: Astrolabio, 1971).
Le correnti psicologiche sopra esposte sembrerebbero condividere l’idea buddhista della non sostanzialità dell’“io”, che andrebbe invece inteso come l’epifenomeno di una rete di rapporti con l’esterno e come una serie di relazioni interne fra aggregati intrapsichici.
Sulla dissociabilità e la non monoliticità dell’“io” hanno scritto molto anche teorici e clinici che rientrano nell’alveo della psicologia analitica fondata da Jung. Nello stesso Jung si ritrova l’idea che la psiche sia eminentemente relazione: sia verso l’esterno, poiché compartecipa a una realtà maggiore, l’inconscio collettivo, sia all’interno, essendo essa intrinsecamente scindibile:
«Jung elaborò (…) un modello pluralistico della dissociabilità della psiche in molti complessi differenti, ciascuno contenente un insieme archetipico di motivi o di immagini» (Kalsched D. (1996): Il mondo interiore del trauma, tr. it. Bergamo: Moretti & Vitali, 2001, p. 128).
I “complessi a tonalità affettiva” sono “enti invisibili”, “contenuti incoscienti sottratti all’impero della volontà cosciente”, “influssi promanati da quella grande X che è l’inconscio” (Jung C. G. (1928/31): Psicologia analitica e «weltanschauung», tr. it. in: Jung C. G.: Il problema dell’inconscio nella psicologia contemporanea, Torino: Einaudi, 1959, p. 217).
I complessi sono dotati non solo di autonomia, ma anche di personalità e memoria: ognuno di essi
«possiede una forte compattezza interna, ha una sua propria completezza e dispone (…) di un grado relativamente alto di autonomia, il che significa che è sottoposto soltanto in misura limitata alle disposizioni della coscienza e si comporta perciò, nell’ambito della coscienza, come un corpus alienum animato. (…) Ogni parte di personalità ha un tratto di carattere che le è peculiare e una sua memoria particolare. (…) Non esiste nessuna differenza di principio tra una personalità parziale e un complesso. Entrambe hanno in comune i caratteri essenziali, compreso il delicato problema della coscienza parziale» (Jung C. G. (1934): Considerazioni generali sulla teoria dei complessi, tr. it. in: Jung C. G.: Opere 8, Torino: Bollati Boringhieri, 1976, p. 113-114).
Fin da ragazzo, Jung si percepiva composto da due personalità: una
«frequentava la scuola (…); l’altra era adulta – in realtà già vecchia – scettica, sospettosa, lontana dal mondo umano ma vicina alla natura, alla terra, al sole e alla luna, a tutte le creature viventi, e vicina soprattutto alla notte, ai sogni, a tutto ciò che “Dio” produceva in lei direttamente» (Jung C. G. (1961): Ricordi, sogni, riflessioni, tr. it. Milano: Rizzoli, 1992, p. 73-74).
Per anni Jung dialogò con le proprie diverse istanze interne, trascrivendo pagine memorabili sui suoi colloqui con Filemone o con l’Anima:
«Filemone rappresentava una forza che non ero io. Nelle mie fantasie conversavo con lui, e mi diceva cose che io consciamente non avevo pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, non io. Diceva che mi comportavo con i pensieri come se fossi io a produrli, mentre, secondo lui, i pensieri erano dotati di vita propria (…). Filemone rappresentava un’intelligenza superiore (…). A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva» (Jung C. G. (1961): Ricordi, sogni, riflessioni, tr. it. Milano: Rizzoli, 1992, p. 226).
All’Anima, l’analista svizzero scrisse molte lettere:
«Ne ebbi risposte sorprendenti e insolite. Mi pareva di essere un paziente che si facesse analizzare da uno spirito femminile! (…) Quando (…) il mio comportamento emotivo era turbato e mi sentivo inquieto (…) chiedevo all’«anima»: «Che c’è di nuovo adesso? Cosa vedi? Vorrei saperlo!». Dopo qualche resistenza regolarmente produceva un’immagine, e non appena questa compariva, il senso di inquietudine o di oppressione svaniva (…); quindi ne parlavo con l’«anima», poiché dovevo cercare di intendere l’immagine come meglio potevo» (Jung C. G. (1961): Ricordi, sogni, riflessioni, tr. it. Milano: Rizzoli, 1992, p. 229-231).
Diversi psicologi analisti contemporanei sottolineano come la dissociabilità della psiche risulti ancor più evidente in persone che sono state colpite da eventi traumatici: Kalsched riscontra come, in questi casi,
«una parte dell’io regredisce a un periodo infantile e un’altra parte progredisce, cioè cresce troppo velocemente e diventa precocemente adattata al mondo esterno, spesso nella forma di un “falso sé” (…). La parte progredita della personalità si prende allora cura della parte regredita (…). Nei sogni, la parte regredita (…) è solitamente rappresentata da un sé bambino o animale, (…) la parte progredita (…) da una potente grande figura, benevola o malevola, che protegge o perseguita il suo compagno vulnerabile, qualche volta anche tenendolo recluso» (Kalsched D. (1996): Il mondo interiore del trauma, tr. it. Bergamo: Moretti & Vitali, 2001, p. 28-29).
Kalsched chiama questa “grande figura, benevola o malevola” col nome di “Protettore/persecutore”.
Figure simili vengono individuate anche da Van Der Kolk, il quale chiama “esuli” le parti interne infantili, ferite, traumatizzate e congelate; “manager” le parti critiche e perfezioniste che si organizzano per proteggere gli esuli ma assumono così facendo un’energia persecutoria; “pompieri” un altro gruppo di protettori che interviene nelle emergenze rispondendo impulsivamente (cfr. Van Der Kolk B. (2014): Il corpo accusa il colpo, tr. it. Milano: Raffaello Cortina, 2015, p. 322).
Stone e Winkelman teorizzano l’esistenza di un “protettore/controllore”, la guardia del corpo che ci protegge, che incorpora le ingiunzioni genitoriali, e sotto al quale si agita tutta una schiera di subpersonalità, che possono essere “alleate” col protettore/controllore, o costituire il gruppo dei sé rinnegati, sgradevoli e oppressi.
Fanno parte del primo insieme l’attivista, il critico, il perfezionista, il gestore del potere, il compiacente e il genitore interiore. L’attivista è il sé che sprona ad agire, a lavorare, ad essere continuamente operosi, anche a costo di emicranie, mal di schiena, tensioni muscolari; il critico, dotato di un’acuta intelligenza logica, presiede al pensiero lineare ma spesso impedisce di trovare piacevole la vita; il perfezionista impone delle condizioni che rendono l’esistenza un peso intollerabile; il gestore del potere è uno schema egoista e avido di denaro; il compiacente è il sé che si adatta passivamente agli altri; il genitore interiore oscilla fra il negare totalmente i propri diritti pur di sacrificarsi per i figli, e il mostrarsi giudicante, insensibile, punitivo.
Il secondo insieme è composto invece dal lato oscuro, dal bambino vulnerabile, dal bambino giocoso, dal bambino magico; il lato oscuro rappresenta le energie istintuali che hanno a che fare con l’auto-affermazione, con la sessualità, con la rabbia; il bambino vulnerabile incarna la sensibilità e la paura del soggetto; il bambino giocoso è lo schema di energia cui piace giocare, ridere e scherzare; il bambino magico è il depositario della fantasia, dell’intuizione, dell’immaginazione creativa (cfr. Stone H., Winkelman S. (1989): Il dialogo delle voci, tr. it. Torino: Amrita, 1996).
Stone e Winkelman sostengono che sia necessario innescare un dialogo con queste parti interne. Analogamente, Hillman suggerisce di parlare con l’anima, con le creature e le immagini di luce ed ombra che la popolano, semplicemente chiedendo
«“cosa vuole l’anima?”. Per prima cosa andiamo da lei, così, semplicemente, e lasciamo che sia lei stessa a dircelo. Non sarà così facile, perché probabilmente non parlerà finché non saremo capaci di ascoltare. (…) Questi dialoghi (…) sono (…) le voci del mondo infero, di quelli di laggiù, gli inferiores, che parlano sotto voce (…), i daimones (…) e (…) vogliono presentare un modo di far terapia, un metodo (…) che (…) non interpreta l’immagine, ma parla con essa. Non chiede cosa quell’immagine significa, ma cosa essa vuole». (Hillman J. (1983): Le storie che curano, tr. it. Milano: Raffaello Cortina, 1984, pag. 117-124).
Fra le varie immagini d’anima, Hillman esplora con particolare attenzione la coppia Senex/Puer: il primo può simboleggiare la saggezza o l’arido indurimento della coscienza; il secondo può richiamare l’aspetto spirituale e le potenzialità del Sé, così come la fragilità dell’infanzia.
Compassione e non sostanzialità dell’ego: un caso clinico
Una vignetta clinica potrà ora illustrare come la dissociabilità dell’“io” e la possibilità di dar conseguentemente voce proprio ad aspetti “Puer” e “Senex” abbiano permesso l’emergere di un moto di compassione che si è rivelato potentemente terapeutico.
Claudia era una signora di mezza età che si faceva chiamare con un nome diverso dal proprio perché, diceva, “non mi piace il mio nome, né il mio cognome che mi riporta al ramo paterno”. Raccontò di un padre padrone dispotico, umiliante, dal quale si era sentita sempre odiata e derisa, ma che ora era costretta ad accudire perché stava diventando vecchio e iniziava a palesare segni di demenza.
Incoraggiai Claudia a tornare ai ricordi e alle emozioni dell’infanzia, alle radici delle difficoltà che aveva col padre. Profondamente rilassata, si visualizzò molto piccola e sperimentò l'odio da parte del padre, il quale voleva non una figlia femmina ma un maschio. “Sento mio padre dire a mia madre di stare zitta e di non parlare. Anch'io devo stare ferma immobile. Lui è sempre arrabbiato, mia mamma tace, è triste e allora diventa fredda anche con me”. Cogliendo gli impliciti suggerimenti terapeutici di Jung, Hillman, Van Der Kolk, Kalsched, Stone e Winkelman, feci intervenire una Claudia più matura e saggia, che prese le difese del suo alter ego puella. La prima volta il suo intervento fu piuttosto limitato: “Direi ai miei genitori che io non c'entro niente con i loro litigi, che sono piccola!”.
In una successiva seduta, Claudia si visualizzò in uno specifico episodio infantile, mentre era “nascosta sotto il tavolo della cucina. Mi sa che l'ho combinata grossa, perché mio padre urla. In realtà non ce l'ha con me, ma con mia mamma, le grida contro. Non capisco cosa le dice, perché sono piccola, ho 3 anni! Sono triste. Vorrei uscire, ma lui urla ancora. Gli voglio bene ma mi fa paura... mi irrigidisco tutta. Alla fine, lui esce di casa. Io vado da mia mamma e la abbraccio. Lei piange e io sono ancora più triste. Mio padre torna solo il giorno dopo: io vorrei abbracciarlo perché nonostante tutto gli voglio tanto bene, ma lui non mi considera minimamente. Mi urla contro, facendomi piangere disperatamente. Alla fine, mi lascio cadere a terra, come se fossi morta. Mio padre mi sputa addosso”, disse la donna lasciandosi andare anche nel presente a copiosi singhiozzi.
Ancora una volta, feci intervenire la Claudia saggia, che stavolta si rese protagonista di un intervento molto più deciso: strinse forte la se stessa piccola e disse al padre che “dovrebbe amare, apprezzare di più quella piccolina, stare di più con me e la mamma, essere più dolce con noi, lasciarmi cantare; non deve essere un padre padrone, non è il padrone né di me né di mia madre! Glielo dico con tutto il mio coraggio, la mia forza, la mia determinazione, la mia bellezza, quella bellezza che già avevo a tre anni! Avrebbe dovuto avere più fiducia in me! Più apprezzamento! Lui è tanto ignorante in quanto a sentimenti, non sa parlare con il linguaggio del cuore”.
Per Claudia fu un’esplosione liberatoria di rabbia e amore. Dopo quella visualizzazione, affermò di provare ancora saltuariamente rabbia verso la persona di suo padre, il suo invecchiare (ormai era ultranovantenne), la sua demenza, la derisione che aveva sempre notato nel suo sguardo. “A volte però, quando penso che sta per morire o che ha problemi di vuoto che non sempre lo rendono lucido, provo compassione, al punto da arrivare ad accarezzargli i capelli o a dirgli che ha una bella pelle, che è ancora molto bello. Oscillando fra rabbia e compassione, mi capita di soffrire, ma riesco a contenere il dolore per la sua decadenza, cerco di trasformarlo in tenerezza, immaginando di arrivare a un accettazione per ciò che è stato ma che non si ripeterà più”.
Questa esemplificazione clinica mostra come la compassione possa davvero essere un effetto diretto di ciò che il buddhismo chiamava anattā: qual era, infatti, l’“io” di Claudia? La sua personalità infantile, maltrattata e impotente o quella saggia, coraggiosa e protettiva? E qual era l’“io” di suo padre? Quello tirannico di mezzo secolo prima o quello del presente il cui progressivo disfacimento mentale era un’ulteriore conferma della teoria buddhista circa la non sostanzialità dell’ego? Riuscendo via via a affrancarsi da ognuna di queste sempre parziali identificazioni, Claudia arrivò infine a dire: “ho imparato a essere più indipendente da mio padre e dalla sua autorità. Non lo giustifico, ma lo comprendo perché ho scoperto che anche lui in passato era stato un bambino abbandonato e maltrattato. Ora posso accudirlo e curarlo nella sua anzianità: anche se so che non cambierà mai né mi vorrà mai bene, posso avere compassione di lui!”.
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