Esso è stato uno dei temi cardine fin dalla prima psicoanalisi, che si chiedeva se e in quale misura la psicoterapia potesse essere una forma di cura accessibile a tutti o se fosse invece possibile solo per una limitatissima, privilegiata parte della popolazione in stato di bisogno.
Nei tempi odierni, in cui il disagio psicologico ed emotivo è sempre più diffuso, l’accesso alle cure psicoterapiche continua ad essere limitato, ancora per i costi che la cura richiede di sostenere e per le risorse economiche che scarseggiano, a causa della recessione.
Il problema della brevità di un intervento psicoterapico è senz’altro reale e va tenuto nella dovuta considerazione, però dovrebbe restare preferibilmente all’interno del dibattito della scienza psicoterapica e non portato fuori all’utenza. Quest’ultima, infatti, tende a prediligere un intervento psicoterapico piuttosto che un altro spesso in base a criteri di “convenienza” economica e di valutazione di rapporto qualità-prezzo, come se la cura psicoterapica fosse uno dei tanti servizi che si possono acquistare sul mercato.
L’utenza andrebbe pertanto informata sul fatto che non tutti gli interventi psicoterapici possono essere brevi e che comunque la brevità non dovrebbe essere la principale caratteristica per decidere tra un approccio e un altro.
La psicoterapia è un percorso che mira, oltre che a curare, a portare la persona verso la conoscenza di sé, cosa che di per sé è curativa. Il suo successo dipende da vari fattori, tra cui sono primari: la bravura del terapeuta (indipendentemente dall’approccio seguito), la volontà del paziente di cambiare e l’entità del suo sistema difensivo. Solo in minima parte dipende dal tipo di approccio psicoterapico applicato.
Sicuramente è vero che alcuni approcci possono essere più indicati per un tipo di problema piuttosto che per un altro, ma è molto difficile che il paziente/cliente sappia fare questa valutazione attentamente e con obiettività.
Tra le prime domande che fanno alcuni pazienti vi è la seguente: “dottore, per quanto tempo pensa dovrò venire da lei?”. È una preoccupazione legittima, che nasconde però quasi sempre una resistenza al trattamento. Il paziente vuole guarire velocemente, e spesso con la sua fretta svaluta il sintomo, negando così la cura.
Occorre ovviamente distinguere tra caso e caso; infatti, vi sono persone che, dopo una iniziale resistenza, si affidano alla cura proseguendola con fiducia e profitto.
In ogni caso, una buona risposta a questa domanda è “tutto dipenderà molto da lei...”, seguita da una domanda del tipo “chi è colui che è preoccupato della durata della terapia?”.
Questa domanda spesso mette in luce una resistenza che la persona ha a lavorare su di sé e la mette subito in contatto con essa, fin dal primo incontro, attivando così un processo di consapevolezza sulle sue motivazioni e unʼesplorazione profonda di sé.
Andare nel profondo di sé richiede tempo, soprattutto se la persona non ha mai svolto questo tipo di lavoro; se ha impiegato tutta la sua esistenza a costruire ciò che è, per quale motivo dovrebbe riuscire in breve tempo a decostruirsi e ad edificare un nuovo modo di essere al mondo? Tale evento si dimostra essere molto raro nella realtà.
Dunque, pur se un intervento psicoterapico dovrebbe essere il più breve possibile, certamente la brevità non dovrebbe essere il parametro più importante di cui tenere conto in una terapia, né da parte del paziente/cliente né da quella del terapeuta. Il più breve possibile sì, per quel tipo particolare di paziente e di problema; intervenire sull’acuzie, quindi aiutare la persona a leggere il sintomo e a crescere, e poi a svincolarsi dalla terapia; sono questi i requisiti fondamentali di ogni buona psicoterapia, efficace e con effetti duraturi.
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