Cosa significa essere un (vero) uomo?
In fondo un uomo non è che un essere umano che dimora all’interno di un corpo maschile. Spesso questo ce lo dimentichiamo.
Siamo un po’ tutti vittime del patriarcato, di questa mascolinità tossica che contraddistingue la nostra società. Ma non solo. Siamo anche vittime del matriarcato, di una femminilità avvelenata dalla stessa spasmodica brama di controllo del suo equivalente maschile. Entrambi condividono il loro scopo: acquisire potere per dominare e trionfare sul mondo, negando, di fatto, i propri limiti e le proprie oscurità.
L’essere umano appena nato aspira naturalmente ad essere onnipotente fin dalla nascita e dai primi rapporti con il caregiver. Nel tempo e col tempo, questo suo bisogno egocentrico deve fare i conti con il principio di realtà, con l’osmotico confronto con se stesso e ciò che lo circonda. Di conseguenza non resta che innalzare difese, sviluppare fantasie, scendere a patti con se stessi, le proprie vulnerabilità ed i vissuti inaccettabili che spesso ci portano ad agire come chi dovremmo essere, piuttosto che come siamo.
Non è cosa semplice essere realmente autentici quando alla libertà d’animo si contrappongono resistenze ed ostacoli psicologici, personali, sociali e culturali. Da questi attriti e divergenze emergono perpetui conflitti, in cui il ‘divenire’ diventa lotta costante verso il mondo e se stessi, un lusso riservato a pochissimi, un miracolo di vita che germoglia e si sviluppa per essere poi acquisito realmente soltanto nel corso della vita.
Come disse lo Psicoanalista Svizzero Carl G. Jung: “Il privilegio di una vita è diventare chi sei veramente.”
Lo sa bene l’uomo, quello altamente sensibile, che lotta costantemente contro uno stereotipo maschile che spesso non ha nulla a che vedere con la sua natura.
Durante la crescita l’uomo si trova immerso e trascinato dalle correnti gravitazionali del suo sesso, imbevuto di preconcetti costruiti, che trovano le loro radici nell’inconsapevolezza della gente, ma che tuttavia ne determinano il comportamento.
Il patriarcato in fondo è proprio questo, un sistema di potere che stabilisce una gerarchia basata sulla presunta superiorità degli uomini rispetto alle altre identità di genere, portando a discriminazioni, pregiudizi culturali e limitazioni nell’accesso alle posizioni di potere per chi non si identifica come maschio eterosessuale. Questo sistema permea la società moderna, influenzando le norme culturali e coinvolgendo tutti gli individui, incluse le donne, poiché crescono immerse in questa cultura patriarcale.
Ne deriva la concettualizzazione di una ‘mascolinità tossica’, funzionale al mantenimento del primo modello dominante, ma che ha subito cambiamenti nel corso del tempo. L’origine del termine risale agli anni ’80, quando lo psicologo Shepherd Bliss lo coniò per la prima volta. Secondo uno studio pubblicato nel Journal of School of Psychology, la mascolinità tossica è definita come: “l’insieme di tratti maschili socialmente regressivi che promuovono il dominio, la denigrazione delle donne, l’omofobia e la violenza insensata.”
Questa visione tossica della mascolinità può essere suddivisa in alcune caratteristiche chiave:
→ Durezza: Gli uomini sono spinti a mostrare forza fisica, insensibilità emotiva e
comportamenti aggressivi.
→ Anti femminilità: Gli uomini dovrebbero respingere tutto ciò che è considerato femminile,
inclusa l’espressione emotiva e l’accettazione d’aiuto.
→ Potere: Gli uomini sono incoraggiati a cercare il potere e lo status (sia sociale che
finanziario) per ottenere il rispetto altrui.
La mascolinità tossica, spesso definita come machismo, si manifesta attraverso una serie di
comportamenti che possono avere conseguenze dannose, non solo per gli uomini ma per tutti, indipendentemente dal genere o dall’identità di genere.
Chi abbraccia questa visione di mascolinità:
X Mostra una mancanza di connessione emotiva con se stesso e gli altri.
X Evita il confronto, preferendo mantenere il controllo e prendere decisioni unilateralmente.
X Ha difficoltà a chiedere aiuto quando ne ha bisogno.
Si crea così una figura mitologica e totemica presa a modello, in assenza di altri riferimenti, dal sesso maschile. Una sorta di lobby non dichiarata, in cui determinati gruppi ed individui non possono che godere di vantaggi significativi. Ne sono avvantaggiati ad esempio i soggetti che rispecchiano i tratti della “triade oscura” (narcisismo, machiavellismo e psicopatia), come molti soggetti “tradizionalisti”, fino ad arrivare alle imponenti strutture di potere, come le corporazioni. I media spesso amplificano questi ideali, mentre settori quali la tecnologia e la sanità possono involontariamente perpetuarli. Non da ultimi la religione e lo sport sovente consolidano queste norme, sostenendo visioni conservatrici o fondamentaliste.
Siamo tutti testimoni di una società che è vittima ed artefice di un’esacerbata industrializzazione e di una cultura consumistica “usa e getta” post-industriale, in cui si segue un percorso di intensa oggettificazione umana, grazie al quale la parola “successo” è sinonimo di status e ricchezza materiale. Ciò non può che portare ad un contesto con una maggioranza insoddisfatta, in cui gli sforzi per incarnare l’ideale di “vero uomo” nella società attuale rischiano di vacillare e crollare. E’ una condizione paradossale, soprattutto se si tiene presente quanto, durante l’epoca georgiana (1714-1830) prima della Rivoluzione Industriale, la mascolinità era associata a saggezza, virtuosità e libera espressione emotiva, contrapponendosi drasticamente alle successive concezioni industriali e belliche di virilità. Tuttavia, per riscrivere queste norme, gli uomini necessitano del supporto delle donne, che li accettino per ciò che sono veramente. Hanno bisogno di accettare e che venga accettata la propria sensibilità, ma anche dell’incoraggiamento empatico e comprensivo da parte di
altri uomini.
Di tale cambiamento di mentalità gioverebbero tutti, single e famiglie, soprattutto in salute. Dati alla mano dimostrano che, nonostante gli uomini abbiano minori diagnosi di disturbi d’ansia o depressivi rispetto alle donne (segno in questo caso di un trattamento ricevuto dalla società più adeguato ai loro bisogni e desideri), essi presentano un tasso di suicidio significativamente superiore alle stesse, salendo al 77% dei casi negli USA. Il sesso maschile è inoltre più suscettibile alle dipendenze, oltre che rappresentare circa il 93% della popolazione carceraria. Questi numeri sorprendenti sono rimarcati anche dal fatto che che gli uomini vivono in media 5-10 anni in meno delle donne. Il dott. Thomas Perls, professore alla School of Medicine dell’Università di Boston, sostiene che circa il 70% di questa differenza nell’aspettativa di vita sia attribuibile allo stile di vita ed ai fattori ambientali, mentre solo il 30% a fattori biologici. Questa teoria è corroborata da ulteriori studi su monaci e suore del dott. Marc Luys, tramite i quali si coglie che in quei casi la longevità è risultata quasi identica tra i due sessi, grazie a uno stile di vita simile e regolamentato.
Come conseguenza all’imperare di queste “pre-concezioni” maschili, l’uomo (con più o meno sensibilità) non può che ritrovarsi costretto a seguire tali ideali, modificando il comportamento per favorire la propria socializzazione ed integrazione nella cultura e società circostanti. Non trovando libero sfogo a tutta la gamma degli aspetti psichici il suo sistema nervoso, altamente reattivo ed in fase di allerta, non può che reagire con agiti (attacco-fuga), soppressioni emotive (congelamento) e/o reazioni che spesso sfociano in meccanismi disfunzionali rispetto ad una condizione di benessere.
La mascolinità è un costrutto sociale e non una qualità innata. Non esiste un unico modello di “vero uomo” ed ogni individuo dovrebbe sentirsi libero di scoprire e forgiare la propria identità. L’abbandono dei tradizionali valori maschili permetterebbe agli individui di vivere con empatia, vulnerabilità ed autenticità, arricchendo non solo la propria vita, ma anche quella dei loro partner e di chi li circonda. In questa libertà, l’uomo altamente sensibile avrebbe finalmente l’opportunità di essere di esempio su come si possa essere uomini e contemporaneamente empatici e sensibili, trasformando così la sensibilità, da scomoda e dolorosa, in pilastro pur una vita più lunga e felice.
Come disse Victor Hugo: “Chi non piange non vede.”
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