Buongiorno, mi chiamo Letizia, ho bisogno di un consiglio esterno perchè mi sento in trappola nella rabbia che provo verso il mio terapeuta. Sono in cura da lui da quasi tre anni, per fobia sociale con tratti evitanti di personalità, ho sempre avuto periodi in cui volevo cambiare terapia (da psicodinamica a cognitivo-comportamentale), ma non mi sono mai decisa. Ora, non riesco a gestire la nostra relazione nel senso che da una parte, riconosco che abbiamo una visione delle cose diversa, nel senso che io vorrei cambiare nel minor tempo possibile, per poter vivere la mia giovinezza in un modo normale e poter cogliere le opportunità che mi si offrono, per imparare a farmi degli amici e avere anche delle relazioni sentimentali, che non ho mai avuto e questa cosa mi pesa, mentre lui sostiene che l'obiettivo della terapia sia di conoscermi, che farò solo quello che posso, che non posso cambiare in breve tempo dopo 21 anni di insicurezza e timidezza, questo è vero, senz'altro, però io non mi sento capita, perchè forse, penso, se lui mi capisse mi direbbe che ci vuole, sì, tempo, ma che cercheremo di lavorarci per uscirne in breve. Poi, stiamo lavorando sulla mia rabbia nei suoi confronti, che è tanta, solo che mi fa solo soffrire questo lavoro perchè mi sembra che lui mi prenda in giro, nel senso che io mi arrabbio, lui mi guarda con un sorrisino rilassato e mi dice "lei è arrabbiata", il che mi fa ancora più arrabbiare e lui mi ripete: "lei non vuole proprio vedere che è arrabbiata", sembra che lo faccia apposta, non mi dà un suggerimento per gestirla, io mi sento presa in giro quando fa così, glielo dico e lui mi ripete la cosa che io proietto su di lui l'atteggiamento di mio padre e dei miei fratelli che mi prendono in giro, e la cosa continua, fino a che io non torno a casa esausta e non mi torturo tutta la settimana su questi sentimenti distruttivi. Non so più cosa fare. Se gli dico che voglio cambiare, mi dice di farlo pure, ma accettando che sarebbe un agito di aggressività nei suoi confronti provocato dalla mia "ombra", che io secondo lui non voglio vedere, al che io non mi sento di cambiare e resto solo più arrabbiata. Non so più cosa fare, spero nella risposta di qualcuno per avere una visione esterna sulla questione, e mi scuso se il discorso è troppo contorto.
Buongiorno Letizia,
ho letto il suo messaggio e ho deciso di risponderle.
Sarò breve: sicuramente il suo terapeuta si starà approcciando al suo vissuto di rabbia in linea con l'approccio terapeutico che utilizza ma mi sento di dire che, se è vero che anche in terapia possiamo mettere in atto alcuni cicli interpersonali che viviamo nelle relazioni "esterne", resto dell'idea che un paziente non dovrebbe MAI sentirsi "in trappola" nella terapia. Credo che in gioco ormai ci sia la fiducia che lei ha nei confronti del terapeuta e che se questa situazione non si sblocca, ma anzi pare stia peggiorando, forse sarebbe il caso di prendersi "una pausa" e realmente iniziare a pensare ad un cambiamento. Sono dell'idea che i percorsi terapeutici siano delle "parentesi" importanti nella vita delle persone, ma pur sempre "dei pezzi di percorso" e come tali, destinati anche a terminare. Sicuramente avrà giovato questo percorso, a volte serve proprio a capire che abbiamo bisogno di altro. Probabilmente lei è pronta, anche grazie a ciò che sta accadendo in terapia, a scegliere di cambiare e di prendere le distanze da certi cicli interpersonali. Non siamo MAI obbligati a restare in una relazione che ci fa stare male (come lei non è obbligata a subire le angherie dei fratelli o del padre). Io ho un approccio diverso (cognitivo-comportamentale) e non amo provocare i pazienti e "sfidarli". Se salta l'alleanza terapeutica (e i vissuti di rabbia verso il terapeuta ci possono stare, ma se non vengono superati assieme rappresentano un problema, non una risorsa) per me la terapia non è più funzionale.
La saluto cordialmente
Dott.ssa Cristina Bozzato
psicologa psicoterapeuta CBT
Gentile Letizia,
noi entriamo in relazione con gli altri così come le varie parti di noi entrano in relazione tra loro.
Spesso purtroppo individuiamo la sfera emotiva come il nemico da combattere e ciò anche come conseguenza del fatto che culturalmente le emozioni continuano a essere distinte in positive e negative.
Qualche approccio psicologico ha fatto un passo ulteriore individuando una valenza positiva e negativa in ciascuna emozione, ma anche questa concezione è frutto dell'assunzione di un vertice osservativo ancorato al predominio del pensiero su tutte le altre aree del SISTEMA INDIVIDUO.
Nell'ottica MDPAC le emozioni sono ESCLUSIVAMENTE PROTETTIVE poiché rinforzano i pensieri positivi e trasformano quelli negativi. Nel caso della RABBIA questa emozione sta tentando di proteggerci da ciò che percepiamo come un attacco alla nostra AUTOSTIMA, quindi il problema non è la RABBIA, ma il pensiero negativo circa noi stessi che scaturisce nel momento in cui percepiamo il comportamento dell'altro come un'offesa o poco rispettoso.
Nel caso della rabbia verso il terapeuta talvolta in terapia si possono ripresentare delle dinamiche che sono riconducibili a quanto accadeva nella relazione con i nostri genitori quando eravamo bambini e questa diventa occasione per riparare quegli schemi disfunzionali: ad esempio i professionisti che usano la tecnica EMDR andrebbero a lavorare sulle situazioni stressanti o traumatiche hanno minato la sua AUTOSTIMA e in cui si sono installate in lei cognizioni negative come "non sono capace, non sono importante, non solo all'altezza etc". Il comportamento del terapeuta le ricorda qualche altra situazione del passato in cui qualcuno faceva un sorrisetto e si sentiva istigata o presa in giro?
Chi lavora con le tecniche di Mindfulness le direbbe di accettare quella emozione e lasciarla andare eppure questa modalità finisce per attribuire all'emozione una connotazione negativa.
Insomma la maggioranza degli approcci psicologici (psicodinamici, cognitivista etc), interviene sulla gestione delle emozioni e nel senso comune molto frequentemente si confondono le emozioni con il comportamento, i meccanismi di difesa, gli istinti e le pulsioni.
A mio parere finiamo per combattere il nemico sbagliato bisfrattando o evitando chi in realtà desidera aiutarci: l'emozione.
Io le indicherei di provare ancora a risolvere con il suo terapeuta questi vissuti, nella consapevolezza che ciò potrebbe rappresentare una svolta al suo percorso. Tuttavia quand'anche valutasse di cambiare professionista lo faccia nell'altrettanta consapevolezza che ci sono tecniche terapeutiche che calzano meglio su alcune persone rispetto ad altre e che ciascun frutto ha il proprio tempo per maturare quindi evitare le pressioni dell'effetto serra non è un fallimento: tra l'altro ogni incontro ha valore nella misura in cui noi stessi gli attribuiamo uno o più significati quindi anche questi anni di psicoterapia.
Personalmente ho un approccio integrato perché ritengo che l'individuo sia un sistema complesso e quindi cerco di usare la metodologia più efficace per il paziente: MDPAC, Mindfulness, TRAINING AUTOGENO BIONOMICO (anche questo erroneamente considerato una tecnica di rilassamento), tecniche di rilassamento e di coerenza cardiaca.
Le ho menzionato varie metodologie di modo che possa avere occasione di prendere informazioni e comprendere quella che potrebbe fare al caso suo: la frenesia dei 20 anni è comprensibile, anche se "per la troppa fretta la gatta fa i figli ciechi", ovvero non consente lo sviluppo adeguato degli organi necessari per vivere esattamente come l'effetto serra di alcune metodologie: darsi tempo vuol dire dare aria ai polmoni e frenesia deriva dal greco "phren" che vuol dire mente, animo, diaframma, polmoni.
Concludo con un riferimento all'ombra: senza ombra Peter Pan non può volare.
Buona vita.