Da qualche tempo svolgo la mia professione anche presso un Centro di Salute Mentale del veneziano. Qualche giorno fa mi è accaduta una cosa che mi ha fatto riflettere. Stavo chiacchierando con una frequentatrice del Servizio, una donna sulla cinquantina, in un momento non strutturato, di pausa tra un’attività e l’altra. Ci siamo scambiate qualche informazione, mi conosce da poco ed era incuriosita dal mio accento poco veneto e da altri piccoli dettagli che aveva attentamente osservato. Il tono era rilassato, leggero… poi, all’improvviso, mi dice “Sa dottoressa, io sono cronica, per me non c’è speranza. Gli schizofrenici non hanno speranza!”
Sono stata colta alla sprovvista da un’affermazione che pesa come un macigno.
Una persona che dal nulla si definisce cosí, si etichetta ed in automatico si rassegna all’inesorabilità di una diagnosi.
Questo breve scambio di battute mi ha lasciato addosso un senso di tristezza e una sensazione di fallimento: come possiamo noi, i cosiddetti professionisti della salute mentale, ingabbiare una persona dentro ad un’etichetta, al punto tale che questa persona si identifichi totalmente in questa casella, tanto da perdere la speranza?
Questo episodio ha aperto poi la strada a tutta una serie di riflessioni, più umane che prettamente professionali, sul potere che le nostre parole hanno sulle persone, soprattutto in alcuni momenti di maggior fragilità.
Tutti noi, per rispondere ad un bisogno primario, che è quello della sicurezza, tendiamo a catalogare i fatti della vita, e quindi anche le persone che incontriamo, in caselle, in base a determinate caratteristiche comuni che riteniamo salienti. Questo processo, tipicamente umano, si chiama categorizzazione ed è alla base dell’economia cognitiva grazie alla quale funzioniamo. È una sorta di “risparmio energetico” che ci semplifica la complessità del mondo, facendocelo vedere per categorie.
Quando si tratta di persone però la nostra attenzione a questo processo, normalmente automatico e dunque involontario, dovrebbe essere molto accentuata. Soprattutto perché noi agiamo in base alle nostre convinzioni e dunque se pensiamo che una persona sia “solo” uno schizofrenico, un disabile, un immigrato, etc, ci perdiamo una grandissima parte di ciò che quella determinata persona ha da mostrarci, nella sua unicità.
Questo fenomeno ha un grandissimo potere soprattutto durante l’adolescenza, quando i ragazzini spesso sono bersaglio di prese in giro ed accanimento di altri compagni, che spesso fanno leva su caratteristiche fisiche. Il ragazzo deriso crescerà spesso come un adulto insicuro, con una bassissima fiducia nel proprio aspetto fisico o nella propria personalità.
A tutti è capitato di essere stati oggetto di derisione e, facendo un po’ di mente locale, possiamo ricordarci quella orribile sensazione di essere diventati solo la parte derisa. Mi spiego meglio: se ad un ragazzino, che magari ha uno sviluppo fisico un po’ più lento rispetto ai suoi coetanei, gli altri ragazzini dicono “sei un nano!” , quel ragazzino si dimenticherà di tutto ciò che lo caratterizza, di ciò che lo rende unico e tutta la sua persona si identificherà con il termine “nano”. Come se la parte criticata in un attimo assorbisse l’intera persona e l’individuo si distinguesse solo per quel difetto.
Lo stesso può accadere quando, nel caso di patologie o disabilità, si identifica la persona per la sua patologia, come se il fatto di dire “schizofrenico” fosse sufficiente a definire l’intera persona. In questi anni di professione ho incontrato molte persone con schizofrenia, ma mai una uguale all’altra. Questa frase, apparentemente cosi banale, in realtà non lo è, per il semplice fatto che soffermarsi all’etichetta diagnostica, in questo caso quella della schizofrenia, è una limitazione pazzesca della persona. Perché in automatico, se io mi soffermassi solo sulla diagnosi, perderei di vista la persona, privandola della sua unicità e trasmettendole, tra l’altro, un’idea di sé assolutamente incompleta, ovvero solo quella della sua malattia.
Avere una patologia mentale è un aspetto fondamentale della vita di queste persone, certo, ma non è l’unico aspetto… ci sono persone con schizofrenia simpatiche, antipatiche, generose, violente, loquaci, ordinate, romantiche… cosi come l’immensa varietà del genere umano non sofferente dal punto di vista psichico.
La consapevolezza di malattia è un fattore molto importante nel processo di cura, aiuta a comprendere il significato di alcuni comportamenti ed a convivere con questi, ma una diagnosi non può e non deve sostituirsi alla persona, incasellandola ed imprigionandola.
Per questo credo sia fondamentale prestare molta attenzione a come usiamo le parole, soprattutto in riferimento a persone che magari per un periodo della propria vita sono più vulnerabili di altre.
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