«Esamineremo ora un'altra categoria di cause, completamente diverse: quelle psicologiche. La premessa che sta alla base di questa categoria è che i fattori psicologici avversi colpirebbero in un modo così sfavorevole la mente o la psiche dell'individuo da portare alla fine alla schizofrenia, se nel frattempo non intervenissero elementi compensatori. Accettare l'esistenza di cause psicologiche non significa escludere una predisposizione biologica. Molti autori — me compreso — ritengono che le avverse condizioni psicologiche non porterebbero da sole alla schizofrenia, se non esistesse una predisposizione biologica. Di contro però una predisposizione biologica non è sufficiente a provocare questa malattia se i suoi effetti non sono andati accumulandosi attraverso circostanze psicologicamente sfavorevoli [...]. In che cosa consistono questi fattori psicologici? Molti autori ritenevano che si sarebbero trovati in particolari circostanze dell'infanzia del paziente, nel modo in cui è stato allevato o trattato dalla famiglia. Alcuni autori hanno invece attribuito grande importanza all'anormalità della famiglia nel suo insieme; altri hanno focalizzato la loto attenzione sull'infelice matrimonio dei genitori o sulla personalità del padre o sul rapporto con i fratelli. Sostanzialmente però l'opinione predominante è che la personalità e l'atteggiamento della figura materna rimangano i fattori di maggiore importanza. Il futuro paziente avrebbe trascorso la sua infanzia in un ambiente in cui i rapporti con gli altri membri sono stati caratterizzati da un'intensa ansia o da ostilità, da distacco o da un insieme di questi sentimenti. Queste affermazioni sono molto vere anche se sono state esagerate o espresse in termini tali da suscitare ingiustificati sensi di colpa nelle famiglie dei pazienti e in particolare nella figura materna.
Alcuni autori hanno descritto le madri degli schizofrenici come donne prive di senso materno. E più corretto dire che esse sono state a volte sopraffatte dalle difficoltà della vita. Tali difficoltà sono diventate enormi non solo a causa dei loro infelici matrimoni, ma anche e soprattutto a causa delle loro nevrosi o dell'atteggiamento nevrotico sviluppatosi nel rapporto con i figli. C'è un altro punto importante da prendere in considerazione e cioè che certe valutazioni negative delle madri degli schizofrenici sono state fatte all'epoca in cui erano in fase di incubazione drastici cambiamenti nel ruolo sociale della donna. Era il periodo immediatamente precedente l'era della liberazione della donna, il tempo in cui la donna doveva lottare totalmente, ma silenziosamente, con il bisogno, da poco riconosciuto, di affermare la propria uguaglianza. Ella non poteva più accettare la propria sottomissione e, tuttavia, si sforzava di adempiere al suo ruolo tradizionale. I fattori sociali hanno finito così con l'entrare nell'intimità della famiglia e col complicare i ruoli sia dei padri, sia delle madri. Era inoltre il periodo in cui nasceva la cosiddetta famiglia nucleare, una invenzione della società urbano-industriale. La famiglia nucleare è composta da un piccolo numero di persone che vivono in poco spazio, entrando in competizione tra loro per l'utilizzazione di tale spazio e per possessi materiali ed emozionali, e che sono tormentate da ostilità e da rivalità. La vita familiare è spesso fortemente priva di valori educativi, professionali, e religiosi. La famiglia nucleare è distruttiva non solo per i figli, ma anche per i genitori e in special modo per la donna. Ritengo che nell'infanzia, e più tardi nella vita, il futuro paziente non debba solo sostenere l'impatto con emozioni fortemente negative, come tensioni, paure, ansia, ostilità e distacco (non importa chi o che cosa sia la fonte originaria di tali emozioni); egli deve lottare anche contro le modificazioni nel suo sviluppo che derivano dall'essere esposto a tali situazioni sfavorevoli e deve forse combattere alcune caratteristiche sue proprie che lo rendono meno in grado di affrontare le circostanze avverse. In sintesi, è troppo facile (e troppo disastroso nelle sue possibili conseguenze) arrivare alla conclusione che la madre dello schizofrenico è responsabile della malattia del figlio. Se alcune madri di schizofrenici non sono state buone madri, dobbiamo considerare questo fatto realistico in termini più precisi: quella particolare madre non ha potuto essere una buona madre per quel particolare figlio, in quella situazione particolare in cui si è trovata. In tal modo possiamo riconoscere tre diversi fattori che agiscono contemporaneamente: la madre (o la sua nevrosi); la famiglia con tutte le sue difficoltà e i suoi problemi; e il bambino con la sua stessa predisposizione biologica e la sua sensibilità. In modo simile a ciò che avviene nella letteratura psichiatrica predominante, abbiamo messo in risalto il ruolo della madre, che è solitamente il genitore più coinvolto nell'allevare il figlio.
Tuttavia bisogna considerare anche la figura del padre: in primo luogo perché è proprio lui, in numerosi casi, il genitore più coinvolto da un particolare figlio, e in secondo luogo perché può, indirettamente, esercitare sul figlio un effetto nocivo attraverso l'atteggiamento che ha nei confronti della moglie o di altri membri della famiglia. In conclusione, per un bambino è certamente importante il primo ambiente, dato che questo influenza il resto della sua vita, compresa la propensione ad ammalarsi di schizofrenia. Tuttavia questa è solo una parte del quadro. Tra le cause psicologiche della schizofrenia dobbiamo includere anche il modo in cui il bambino ha sentito il proprio ambiente. È probabile che una sensibilità eccessiva o una predisposizione biologica particolare lo abbiano fatto reagire in modo troppo violento ad alcuni stimoli, specie a quelli spiacevoli. Inoltre dobbiamo anche valutare come furono assimilate le sue esperienze dell'ambiente, cioè in che modo sono diventate parti della sua psiche. Se tali esperienze sono state esageratamente forti, è possibile che siano rimaste nella sua psiche come componenti disturbanti e che abbiano dato il via a problemi e a inquietudini. Infine dobbiamo considerare i modi attraverso i quali questa assimilazione negativa ha finito coll' influenzare gli avvenimenti successivi della vita del paziente. Va studiata, quindi, l'intera storia della persona. Quando prendiamo in esame, nella sua globalità, la storia del paziente antecedente la comparsa della malattia, possiamo riconoscervi quattro periodi ben distinti: il primo, la prima infanzia, è vissuto in maniera intensa dal paziente nell'ambito di situazioni familiari che egli vive in modo troppo forte o scorretto. Nel secondo periodo (la tarda infanzia) in genere nel paziente si sviluppa, come reazione alle difficoltà del primo periodo, un particolare tipo di personalità che, qualora non venga corretta, si fa più marcata sia durante sia dopo l'adolescenza. Uno di questi tipi di personalità è quello schizoide, vale a dire quello di una persona che, come risultato di esperienze precedenti, si aspetta automaticamente rapporti con gli altri indirizzati in senso negativo, e che diventa appartata, distaccata, con reazioni emotive minori rispetto alla media delle persone, meno interessata e meno coinvolta. Tuttavia nel suo intimo il paziente rimane estremamente sensibile, ma ha imparato ad evitare l'ansia e la rabbia in due modi: rendendosi il meno appariscente possibile, mettendo tra sé e le situazioni che tendono a suscitare in lui tali reazioni una distanza fisica, e reprimendo le emozioni.
La distanza fisica viene mantenuta evitando rapporti con le altre persone o trattenendosi da quelle azioni che possono dispiacere agli altri. In tal modo il bambino, e più tardi l'adolescente, diventa tranquillo e si sviluppa in lui l'idea sbagliata che «non far nulla» voglia dire essere un buon bambino. Può diventare adulto con all'interno di sé un pessimismo radicato e profondo circa le conseguenze delle proprie azioni. Una caratteristica della personalità schizoide è rappresentata dalla difficoltà a guardare negli occhi la persona con cui parla. Il bambino schizoide, ma ancor più l'adolescente o il giovane adulto, può guardare altrove o avere solo scambi di sguardi fugaci. Il contatto visivo lo rende fortemente consapevole non solo della presenza dell'altra persona, ma anche del fatto che questa persona lo sta guardando. Finché l'altro non gli rivolge lo sguardo egli può sentirlo come non minaccioso; quando invece lo guarda, diventa una persona superiore, intrusiva, e forse anche un inquisitore.»
S. Arieti, Capire ed aiutare il paziente schizofrenico, Feltrinelli, Milano 1981
Schizofrenia
I farmaci e la schizofrenia