È piuttosto frequente che durante un percorso di psicoterapia il paziente - dopo i primi incontri necessari alla conoscenza ed all'insorgere dell'aspetto empatico - inizi a piangere.
In genere, il pianto insorge quando si prova un dolore, derivante da qualsiasi evento, ma dal soggetto in questione avvertito come "dolore profondo", ed ha una funzione liberatoria, di purificazione attraverso una sorta di "catarsi" che poi, lentamente, imprime un nuovo significato all'accaduto.
Spesso, ogni persona, prova pudore a manifestare al mondo esterno questa "fragilità" (se tale si può definire), per quella profonda "paura di sentirsi giudicati", anche da persone vicine. In un contesto clinico, il soggetto-paziente ha la consapevolezza di essere capito e non giudicato e, quindi, abbastanza presto fuoriescono le lacrime.
Sorge opportuna la domanda: perché ogni uomo è così avviluppato nel proprio microcosmo da non consentire ad un suo simile - con cui ha un certo rapporto amicale, amoroso - l'espressione del pianto? La risposta va ricercata in quel profondo egoismo presente in ognuno e che, purtroppo, non consente l'esistenza di rapporti umani, più profondi ed allontana, sempre di più dai valori veri, quelli dettati dall'Amore che come già scrisse Dante "l'amore che move il sole e l'altre stelle". Io ho voluto affrontare il significato del pianto e non di quella semplice commozione che si può provare nel rincontrare una persona o nell'ascoltare una musica che trascina verso i ricordi del passato.
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