Prima di iniziare la fase vera e propria di ricerca e selezione del personale un importante passo da compiere viene indicato come analisi del lavoro, studio della mansione o analisi della posizione di lavoro. A monte di qualunque operazione di ricerca e selezione vi è, quindi, la necessità di conoscere la posizione da ricoprire, almeno secondo una serie di parametri fondamentali.
A questa conoscenza di base viene poi allegato il profilo professionale, che servirà da guida e da schema di confronto durante l’esame dei candidati.
La job description è uno dei momenti più delicati dell’intero processo: è in questa fase, infatti, che, definendo con cura le esigenze in tema di competenza dell’azienda, si pongono le basi per una ricerca precisa, efficace e veloce di personale.
La descrizione del contesto aziendale e quindi della situazione che vive lo specifico microcosmo organizzativo (ufficio, direzione, ecc) in cui il soggetto sarà inserito, risulta decisiva e deve essere realizzata con particolare cura.
La definizione del profilo ideale deve basarsi su un’accurata job analysis che permetta di individuare le caratteristiche connesse ad una performance apprezzabile e di distinguere tra i requisiti essenziali e quelli desiderabili. Tali elementi devono essere oggettivamente riscontrabili e sostenibili e non devono dare luogo a forme di discriminazione.
Un’ultima fase determinante prima della vera e propria selezione è il reclutamento. Il reclutamento è un’attività che sta a monte del processo selettivo e consiste nel ricercare candidati potenzialmente idonei a ricoprire la posizione in questione. Una buona attività di reclutamento costituisce una prima scelta del personale che fa sì che si candidino alla selezione i soli soggetti che ritengono di avere le motivazioni e i requisiti necessari per ricoprire uno specifico posto. Obiettivo del reclutamento è, in altri termini, quello di far affluire il maggior numero di candidati dotati dei requisiti minimi richiesti per lo svolgimento dei compiti della posizione considerata, alla selezione, nella quale si procederà poi alla individuazione di quei soggetti in possesso dei requisiti massimi.
La scelta dei metodi più adeguati per selezionare i candidati necessita dell’introduzione di alcuni criteri che consentano di valutare gli elementi caratterizzanti ogni tecnica.
In primo luogo la validità riguarda la capacità della metodologia di misurare l’aspetto che si intende valutare. Essa si riferisce alla correlazione tra lo strumento di misurazione e una determinata caratteristica, legata alla performance che è oggetto di indagine: per esempio l’analisi dei curricula fornisce indicazioni sulla formazione o sulle esperienze di lavoro dei candidati, ma non è in grado di rilevare le caratteristiche psicologiche degli stessi, né le attitudini o particolari aspetti caratteriali. Allo stesso modo i test sulla personalità non rivelano nulla riguardo alle conoscenze acquisite durante la formazione universitaria. Ciò non significa che questi strumenti non siano validi, semplicemente la scelta va effettuata valutando la loro idoneità a misurare certe caratteristiche e non altre.
Un’ulteriore valenza del concetto di validità è l’elevata correlazione della variabile oggetto di misurazione con la performance lavorativa, detta quest’ultima validità ecologica.
In secondo luogo, strettamente collegata alla validità, troviamo l’affidabilità dello strumento di selezione. Mentre la validità si focalizza su cosa si valuta, l’affidabilità si focalizza sulla precisione della misurazione. Nel contesto delle risorse umane, l’affidabilità è definibile come il grado di stabilità della misurazione rispetto ad una variabile. Cioè uno strumento è affidabile se i risultati di due misurazioni distinte effettuate sulla stessa variabile sono consistenti: per esempio un test di abilità per essere affidabile deve produrre risultati simili e consistenti se somministrato allo stesso candidato più volte in tempi successivi.
In terzo luogo la validità, intesa nella sua duplice accezione, e l’affidabilità contribuiscono a definire l’efficacia di una metodologia di selezione nel prevedere la performance del candidato, sebbene sia problematica la misurazione della stessa per quanto riguarda le tecniche di selezione.
Infine, oltre all’efficacia, l’accettabilità di una metodologia di selezione rappresenta un criterio non trascurabile. Essa si riferisce a tre aspetti: l’ammissibilità rispetto al cliente, rispetto al candidato e rispetto all’etica e alle prescrizioni di legge.
Il cliente, interno o esterno, deve essere convinto della validità della tecnica, altrimenti può rifiutarsi di considerarne i risultati, per quanto affidabili essi siano. In generale il problema dell’accettabilità prevale su quello dell’efficacia della metodologia di selezione proposta. Le motivazioni per cui una metodologia può risultare più accettabile rispetto ad un’altra sono varie e non sempre razionali: la specifica conoscenza della tecnica, la facilità d’uso, la comprensibilità e la presentazione delle valutazioni hanno una maggiore importanza rispetto a considerazioni di costo o di validità predittiva.
L’ammissibilità rispetto ai candidati riguarda la loro disponibilità ad accettare la metodologia anche in termini di impatto morale o di percezione dell’organizzazione.
L’accettazione delle metodologie da parte dei candidati è fortemente influenzata anche dal comportamento di chi conduce la selezione, che spesso non coincide con l’organizzazione nella quale il candidato si inserirà. L’ammissibilità dal punto di vista etico e legale è importante perchè la selezione è insidiata da varie forme di indebita discriminazione nei confronti di alcune categorie di soggetti: dalla elaborazione distorta della person specification*, ai pregiudizi nella scelta del candidato, all’utilizzo di alcune tecniche invece che atre. Di per sé gli strumenti di selezione non sono discriminatori, ma a volte li rende tali l’uso che se ne fa.
Il test, nella sua definizione più ampia, è uno strumento costruito per “determinare reazioni osservabili e misurabili, riconducibili a una o più qualità psicologiche”. Le qualità indicano le componenti della mente umana: l’intelligenza, le attitudini, le capacità e i tratti della personalità. A queste componenti corrispondono test specifici per la loro rilevazione e la loro misura. Esistono numerosi test, con caratteristiche anche molto differenti, la cui valutazione e la cui scelta richiedono conoscenze specialistiche.
Dal punto di vista del selettore i test psicoattitudinali vengono suddivisi in due categorie: test di abilità o di valutazione cognitiva e test di personalità.
In generale i test psicologici possono essere utilizzati per:
1. Valutare quantitativamente e qualitativamente condizioni momentanee o durevoli di funzionamento psichico o singole funzioni;
2. Valutare tratti di personalità durevoli e che siano predittivi di comportamenti futuri.
*La person specification si basa su un’accurata analisi delle caratteristiche del ruolo e descrive il profilo della persona ideale destinata a ricoprirlo. Se viene bene elaborata è utile ai candidati stessi, i quali possono, così, valutare la propria adeguatezza ai requisiti del ruolo proposto; è utile anche ai selezionatori che possono operare con più rapidità e in condizioni di certezza. La definizione del profilo ideale inoltre permette di evitare alcuni dei più comuni problemi della selezione, tra i quali il mirroring, l’errore di proiezione, cioè la tendenza del selezionatore a scegliere coloro che rispecchiano i suoi valori, le sue capacità, i suoi atteggiamenti, piuttosto che i candidati che presentano le caratteristiche più consone al ruolo. La person specification comprende una varietà di caratteristiche che vanno oltre la semplice descrizione delle abilità, della formazione e dell’esperienza, quali ad esempio le qualità personali e lo stile di lavoro.
In psicologia vi sono due grandi orientamenti che spesso invece di integrarsi si contrappongono l’un l’altro: l’approccio psicometrico versus l’approccio fenomenologico. L’approccio psicometrico ha basi scientifiche e tende a valutare gli individui basandosi sulla rilevazione della misura di quanto questi differiscano dalla media (metodo nomotetico). L’approccio fenomenologico invece rivolge la propria attenzione solo all’individuo singolo e non a come differisce dagli altri (metodo idiografico). In entrambi è comunque fondamentale sempre la separazione della natura dei dati, discriminando il dato osservativo da quello inferenziale.
La situazione di valutazione può essere percepita dal candidato come una fase in cui mettere in mostra le proprie abilità ma molto più spesso purtroppo nei suoi aspetti persecutori. Nel vissuto del candidato infatti il reattivo spesso oscilla tra la cartomanzia e il quiz soprattutto quando non è esplicita la correlazione tra ciò che gli viene chiesto e il ruolo o la mansione a cui il soggetto si sta candidando.
È importantissimo per lo psicologo tenere sempre a mente che ogni test è costruito sul fondamento di un modello (paradigma) nosografico/descrittivo o interpretativo/esplicativo della personalità o di una determinata area cognitiva. Può quindi fornire solo informazioni relative a quell’area, perché gli stimoli utilizzati sono congrui soprattutto con quest’ultima.
Prima di usare un test, lo psicologo, dovrebbe conoscerne l’orientamento teorico, le caratteristiche pratiche, l’adeguatezza della standardizzazione, l’attendibilità e la validità.
Ogni test ha un bias (o zona cieca) che è di fondamentale importanza che il somministratore conosca. Ogni test costringe il clinico a un punto di osservazione del paziente predefinito. L’uso di test diversi comporta modificare e/o integrare tale punto di osservazione, e ciò può avere conseguenze positive o negative a seconda della competenza dello psicodiagnosta.
La diagnosi testologica fornisce informazioni su una o più delle seguenti aree:
- Funzionamento cognitivo;
- Funzionamento emotivo;
- Funzionamento interpersonale;
- Funzionamento intrapsichico.
Di solito la fine della raccolta del materiale è identificata dal profano con la fine del lavoro diagnostico. Il lavoro diagnostico, invece, comincia in quel momento.
Gli errori e i problemi più frequenti associati alla somministrazione dei reattivi psicologici sono quasi sempre da rintracciare:
- Nel contenuto (dati grezzi, omissione di informazioni importanti, selezione tendenziosa dei dati a causa di un bias, o lacuna, del somministratore);
- Nelle caratteristiche dello psicodiagnosta e/o nel suo orientamento teorico (esibizionismo, eccesso di autorità, difficoltà a prendere decisioni e ad assumersi responsabilità);
- Nell’interpretazione (interpretazioni irresponsabili o troppo speculative, scarsa caratterizzazione del soggetto da testare);
- Nei problemi di comunicazione (frasario vago, oscuro, ambiguo, troppo tecnico, inutilmente complesso, cattiva strutturazione della relazione).
Inoltre a ciò si aggiunga che ancora oggi si valuta la personalità pur non esistendo una definizione chiara e consensuale di questo costrutto. Quindi la misura di un tratto della personalità è in funzione del metodo usato più che un costrutto teorico.
In conclusione è ormai accertato che un singolo test (pur correttamente usato) rischia di fornire informazioni parziali e potenzialmente inattendibili. L’impiego di batterie composte da diversi reattivi e il riscontro dei risultati dei test con quelli ottenuti attraverso l’impiego di altri strumenti, il colloquio si può intendere come uno di questi, rappresentano una cautela irrinunciabile. I test non sono strumenti asettici (che possono essere impiegati comunque e quantunque), ma altresì sono influenzati da variabili di contesto, di relazione, di motivazione e così via, ossia non sfuggono alle regole generali proprie dell’operare in psicologia.
I test psicoattitudinali per la valutazione delle abilità cognitive misurano quanto una persona ha appreso fino al momento in cui avviene la verifica, sia in forma strutturata, come ad esempio attraverso corsi di formazione, sia in modo informale, grazie a esperienze indistinte e spesso non strutturate. Nessun test, in realtà, può garantire la misurazione della capacità futura di apprendere di un soggetto: esso misura unicamente un tipo di comportamento attuale che presuppone una conoscenza precedentemente acquisita.
Nei contesti aziendali i test di abilità sono in forma scritta, e sono distribuiti in modo standardizzato a un numero elevato di candidati nello stesso tempo.
L’obiettivo dei test di attitudine è quello di effettuare una valutazione precisa sulle abilità di un soggetto nello svolgere un determinato lavoro e non quello di dare una valutazione sul livello della sua intelligenza generale. Spesso sono anche definiti test di efficienza e, solitamente, sono composti da una serie di prove costituite da un elevato numero di sub-test; ogni sub-test è collegato e si riferisce ad una specifica attività che si intende misurare.
I test attitudinali sono anche detti test occupazionali, nel senso che sono usati in ambiti professionali allo scopo di rilevare nei candidati la presenza o l’assenza di caratteristiche ritenute necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa. I test occupazionali possono essere somministrati in momenti diversi del percorso professionale di una persona, sia in fase di selezione, sia nel corso della carriera per verificare la possibilità di sviluppo professionale. Questi sono costruiti sulla base della job analysis per identificare le caratteristiche essenziali che un soggetto deve possedere per svolgere con successo quella determinata attività. Questi aspetti rappresentano le variabili che il test deve misurare.
Nella categoria dei test attitudinali rientrano anche i test di performance. Questi comprendono periodi di prova, stage e prove pratiche e misurano quello che una persona realizza concretamente sul lavoro.
I test attitudinali possono misurare sia una propensione verso una particolare professione, sia le abilità mentali primarie.
Sono state individuate circa dodici abilità primarie, tra le quali: il ragionamento verbale, l’abilità numerica, il ragionamento astratto, la velocità e la precisione nel lavoro d’ufficio, il ragionamento meccanico, il ragionamento spaziale, l’uso del linguaggio in termini di ortografia e grammatica.
Un’altra tipologia di test attitudinali è il test di intelligenza o test di abilità mentale. Questi si propongono di misurare l’intelligenza di una persona nonostante non vi sia una interpretazione univoca del contenuto di intelligenza. Quest’ultima è individuata come una delle dimensioni fondamentali del profilo del candidato che può essere ben misurata da adeguati strumenti se utilizzati da professionisti competenti. La valutazione dell’intelligenza resta comunque complessa e delicata. La concezione dell’intelligenza come un insieme di abilità/capacità, ha portato alla rielaborazione di test volti alla valutazione specifica. Oltre ai test utilizzati per la valutazione dell’intelligenza generale è possibile trovare un complesso di sub-test che consentono di misurare il livello intellettivo del candidato mediante un approccio analitico che prevede e consente la valutazione di fattori diversi. Da un punto di vista metodologico la misurazione dell’intelligenza degli individui segue due approcci diversi: quello che porta alla misurazione del Quoziente Intellettivo (Scala Binet) e quello concernente la valutazione del fattore G (di Spearman). Nel primo caso si è arrivati alla definizione del concetto di quoziente di intelligenza (Q.I.) come “rapporto tra l’età mentale (misurata dal test) e l’età cronologica” dell’individuo. Nel secondo caso, invece, si sostiene che tutte le attività mentali hanno un fattore comune, detto appunto fattore G, mentre ogni singola attività presenta fattori specifici, detti fattori S, e che l’intelligenza generale è individuata esclusivamente dal valore G, essendo i fattori S collegati a situazioni e attività specifiche e quindi mutevoli. La tendenza della selezione professionale è quella di privilegiare strumenti che consentano una misurazione mirata, e quindi non complessiva, del livello di intelligenza.
Comunque è importante sottolineare che riscontrare un alto punteggio in un test di abilità senza che questo venga incrociato con un test di personalità nulla ci dice riguardo a come il candidato si relazionerà poi nel contesto di lavoro, questa è una variabile che non deve essere sottovalutata.
I test di personalità sono strumenti che permettono di ottenere profili per determinare le caratteristiche di personalità degli individui. Il termine “personalità” è stato interpretato in diversi modi, anche se nessuno di essi riesce a darne una definizione esaustiva e precisa. La maggior parte delle definizione si trova d’accordo sul fatto che la personalità si riferisce ad una combinazione unica di caratteristiche che definiscono un individuo e che ne specificano i rapporti con l’ambiente esterno. I test di personalità, diversamente dai test di abilità che verificano i livelli di rendimento e la capacità di esecuzione, descrivono i tratti e le caratteristiche durevoli delle persone. La personalità, inoltre, non è una caratteristica innata, ma si costruisce giorno dopo giorno nell’interazione sociale.
I test per la valutazione della personalità si possono suddividere in: test “oggettivi” e test proiettivi di personalità.
I test oggettivi sono in genere auto-somministrati (per questo vengono detti anche questionari o inventari) e si basano sulla valutazione della visione che il candidato ha di se e dei propri agiti comportamentali attraverso la risposta a domande che rappresentano diverse situazioni. Di solito, per rispondere, si deve scegliere tra diverse alternative pre-codificate e non esistono a priori risposte esatte o sbagliate a questa domande. I questionari personologici sono, dunque, strumenti formati da una serie di stimoli verbali standardizzati, differenti tra loro.
Il successo del loro utilizzo è dovuto alla capacità di tradurre i tratti della personalità in caratteristiche legate alla attività lavorativa.
Il punto critico di strumenti strutturati come gli inventari sta nel fatto che è possibile una falsificazione volontaria o involontaria della risposte da parte del candidato, al fine di produrre un’immagine socialmente più accettabile di sé. In questo senso le informazioni che si ottengono potrebbero non corrispondere alla personalità del candidato.
Inoltre nei test oggettivi (tra i quali 16 pf, MMPI, Big Five, CBA, Rating Scales, ACL ecc.) “l’interpretazione” che il soggetto dà degli items che gli vengono presentati influisce sul punteggio finale, in genere abbassandone la validità. La possibilità di contraffazione, la tendenza a rispondere secondo uno stile personale sono variabili di disturbo per il corretto funzionamento dello strumento, tanto che sono state previste procedure di controllo per evitare, il più possibile, l’effetto di tali “distorsioni soggettive” (per es.: il criterio della risposta multipla, o del vero/falso, e le varie “scale di controllo”). Quindi la validità delle prove è messa in discussione proprio dalla loro più elevata strutturazione: da un lato essa consente una maggiore standardizzazione, dall’altro, però, presenta il rischio di una conscia o inconscia falsificazione, o peggio ancora dell’eliminazione della variabile soggettiva, soprattutto quando questi test vengono utilizzati a scopo occupazionale e vi è quindi un diretto interesse del candidato a modificare la propria immagine cercando di apparire migliore di quello che è.
I test proiettivi sono prove relativamente non strutturate che consentono risposte praticamente illimitate. Esse si basano sull’ipostesi che il modo in cui l’individuo percepisce e interpreta gli stimoli ambigui del test, oppure il modo in cui struttura la situazione proposta, rispecchi gli aspetti fondamentali del suo funzionamento psicologico. Essi partono, dunque, dal principio che si può ottenere un’immagine psicologica di un individuo osservando come questo proietta la sua personalità e i suoi bisogni, su elementi di tipo esterno, poco strutturati.
Riguardo i test proiettivi il principale fattore di criticità dipende dalla bassa standardizzazione, sia delle condizione di somministrazione, sia delle condizioni di elaborazione dei risultati. Inoltre anche quando si somministrano i test proiettivi il centro dell’indagine psicologica diviene proprio lo stile personale, poi sono altre le questioni con cui bisogna confrontarsi, come ad esempio il riferirsi a nozioni appartenenti alla metapsicologia freudiana e ad una simbologia archetipica lasciata in eredità dalla psicologia analitica di C. G. Jung.
La validità di questi test, pertanto, deriva quasi esclusivamente dall’esperienza, dalla capacità e dalla onestà intellettuale dello psicologo.
Molto interessanti sono i dati ottenuti dallo studio, divenuto ormai famoso, effettuato da Anderson & Shackleton nel 1993 e intitolato “Successful selection interviewing", in cui gli autori, come si vede graficamente, mostrano, utilizzando un campione molto vasto, il risultato di due ricerche aventi come oggetto, la prima, la “Diffusione” percentuale dei principali strumenti di selezione, e la seconda, ancora più interessante, la “Validità Predittiva” di tali strumenti.
Come si può notare emergono alcuni dati interessanti. Innanzi tutto non necessariamente il metodo più diffuso è anche il più valido: ad esempio risulta molto diffuso l’impiego delle referenze e delle segnalazioni che, in realtà, è un metodo di valutazione dalla dubbia validità.
Per quel che concerne i test psicoattitudinali e quelli di personalità entrambi evidenziano un apprezzabile coefficiente di validità, unitamente ad un considerevole indice di diffusione. Scendendo più nel dettaglio possiamo notare come i test di valutazione psicoattitudinale abbiano rivelato una validità predittiva superiore a quella dei test di personalità. È importante comunque ribadire che per i test di personalità (soprattutto per quelli proiettivi) l’abilità e l’esperienza acquisita di chi somministra il test ed effettua poi la lettura dei dati, sono due variabili che possono influenzare notevolmente la validità e l’attendibilità dei risultati.
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