In letteratura si possono trovare molte definizioni di “trauma”. Sintetizzando in maniera efficace il contributo di alcuni di coloro che si occupano di psicotraumatologia, possiamo definirlo come un’esperienza minacciosa estrema, insostenibile e inevitabile, di fronte alla quale l’individuo è impotente (Herman 1992b; Krystal 1998; van der Kolk 1996).
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), versione 5, pubblicato negli USA dalla American Psychiatric Association nel 2013 e tradotto in italiano nel 2014, oltre a riportare definizioni e casistiche molto dettagliate, apporta delle importanti modifiche in materia di sindromi trauma correlate rispetto alle edizioni precedenti, in linea con le numerose conoscenze acquisite anche grazie alle tecniche di neuroimaging.
Il Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) infatti non è più annoverato tra i disturbi d’ansia ma gli viene attribuita una categoria propria, quella dei disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti, tra cui troviamo: il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il disturbo da stress post-traumatico, il disturbo da stress acuto, i disturbi dell’adattamento, il disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti con altra specificazione, il disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti senza specificazione. Inoltre scompare il criterio A2 relativo alle reazioni emotive all’evento traumatico, come la paura, la disperazione, e l’orrore, che rimangono comunque utili nella pratica clinica. Queste modifiche esprimono la volontà di enfatizzare l’eterogeneità della possibile risposta agli stressors e la variabilità delle manifestazioni cliniche del DSPT. A differenza dei tre cluster di sintomi del DSM-IV-TR ora, nel DSM V, ne troviamo quattro: sintomi intrusivi, evitamento, alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico, alterazioni dell’arousal e della reattività.
Al di là delle definizioni che possiamo offrire di trauma e degli aspetti che vogliamo enfatizzare, è ormai chiaro che il trauma produce cambiamenti psicologici reali, per via dei quali le persone traumatizzate sono ipervigili rispetto alla minaccia, con una tendenza a rimettere in atto le stesse situazioni problematiche e una difficoltà a essere spontaneamente coinvolte nella loro vita quotidiana. Modificazioni cerebrali reali, osservabili tramite opportune tecniche di brain imaging (van der Kolk, 2015) che, in riferimento alle sindromi trauma correlate, ci permettono di parlare di “disturbi psicobiologici”.
Proprio grazie a tali tecniche è stato possibile osservare come, durante la rievocazione di un evento traumatico realmente vissuto in precedenza, l’area di maggior attivazione cerebrale corrisponde all’area limbica, nell’emisfero destro. Le emozioni intense infatti attivano il sistema limbico e, in particolare l’amigdala, il cui compito è quello di avvisarci di un pericolo incombente e attivare una risposta somatica allo stress. Nelle persone traumatizzate questa attivazione non si osserva solo durante l’evento traumatico, ma anche in momenti successivi e a distanza di anni, quando vengono esposte a immagini, suoni o pensieri relativi a quelle esperienze traumatiche che hanno realmente vissuto in passato.
L’amigdala reagisce quindi con un segnale di allarme anche a distanza di anni, nonostante non ci sia più nessun pericolo reale. Questa attivazione dà il via a una cascata di ormoni dello stress e di impulsi nevosi che innalzano la pressione sanguigna, il battito cardiaco e l’immissione d’ossigeno, preparando il corpo all’attacco o alla fuga. In queste circostanze l’area di Broca, che è deputata al linguaggio e che si trova nel lobo frontale sinistro della corteccia, risulta significativamente disattivata. Questo fa sì che non sia possibile tradurre in parole pensieri ed emozioni. Questo non significa che, col tempo, queste persone non riescano a riferire l’esperienza traumatica vissuta, ma si tratta spesso di razionalizzazioni, che raramente contengono la verità più intima dell’esperienza, proprio perché questa verità è “senza parole”. Dove il linguaggio non è disponibile, le immagini ossessive catturano l’esperienza e ritornano sotto forma di incubi o di flashback.
Attiva risulta invece l’area 19 di Brodmann, una regione della corteccia visiva che registra le immagini che per prime entrano nel cervello. In condizioni normali le immagini grezze, registrate dall’area 19, si diffondono rapidamente in altre aree del cervello che aiutano a dare un senso a ciò che si è visto. Un senso che, nel trauma, fa fatica a essere trovato e tradotto in parole. Rimangono così le immagini, grezze e libere di intrudere.
Durante i flashback e i ricordi dell’evento traumatico, il cervello dei pazienti traumatizzati si accende solo sul lato destro, mentre l’emisfero sinistro risulta disattivato (van der Kolk, 2015). Le due metà del cervello hanno caratteristiche diverse e parlano due linguaggi differenti. La destra è intuitiva, emotiva, visiva, spaziale e tattile e comunica mediante espressioni facciali e il linguaggio del corpo. La sinistra invece è linguistica, sequenziale e analitica e riguarda tutto ciò che è verbalizzabile. Anche le tracce del passato vengono elaborate dai lati sinistro e destro in modi completamente diversi: il cervello sinistro ricorda i fatti, le statistiche e il vocabolario degli eventi, e viene chiamato in causa per spiegare le nostre esperienze e per conferirgli un ordine. Il cervello destro immagazzina i ricordi del suono, del tatto, dell’odore e delle emozioni che i fatti evocano. Esso reagisce automaticamente alle voci, alle configurazioni del viso e ai luoghi di cui abbiamo fatto esperienza nel passato. Tutto ciò è percepito come una verità intuitiva.
In circostanze normali i due lati del cervello lavorano insieme, ma non nelle esperienze traumatiche. La disattivazione del cervello sinistro, conseguente al trauma, ha un impatto diretto sulla capacità di organizzare l’esperienza in sequenze logiche e di tradurre in parole i nostri sentimenti e le nostre percezioni dissociate. Se non siamo in grado di creare una sequenza logica dei fatti, significa che non possiamo riconoscere causa ed effetto, né capire le conseguenze a lungo termine delle nostre azioni o creare piani concreti per il futuro. Quando qualcosa riporta le persone traumatizzate al passato, il loro cervello destro reagisce come se l’evento traumatico stesse accadendo nel presente. Ma poiché il loro cervello sinistro non funziona molto bene, perché si disattiva, non sono consapevoli di stare rivivendo e rimettendo in atto il passato: sono effettivamente furiose, terrorizzate, arrabbiate, in preda alla vergogna…
Un altro ruolo importante nelle dinamiche collegate al trauma è quello degli ormoni dello stress. Essi, in condizioni ordinarie, preparano l’individuo a reagire prontamente a una minaccia, per poi ritornare ai loro livelli normali una volta che il pericolo è passato. Questo è possibile grazie anche al cortisolo, che ha il compito di mettere fine alla risposta stressogena grazie all’invio di un segnale che comunica che “tutto ora è a posto”. Idealmente il nostro sistema ormonale legato allo stress dovrebbe quindi fornire una risposta immediata alla minaccia, per poi tornare rapidamente in equilibrio una volta che la minaccia è svanita. Questo però non succede nelle persone traumatizzate che continuano a secernere grandi quantità di ormoni dello stress anche dopo che il pericolo è passato. In questi casi il cortisolo non riesce a mandare il segnale di “è tutto a posto”, incapace così di mettere fine alla risposta stressogena e tornare alla normalità.
Gli ormoni dello stress costantemente attivati si declinano in problemi di memoria e attenzione, irritabilità e disturbi del sonno. Tuttavia hanno anche altri effetti più insidiosi: nel lungo periodo contribuiscono all’insorgenza di molti problemi di salute a lungo termine e a una maggiore vulnerabilità del sistema fisico, che si puossono tradurre in sintomi fisici tra cui fibromialgia, sindrome da affaticamento cronico e altre malattie autoimmuni.
Alcuni importanti esperimenti sugli animali, tra cui uno dei più famosi è certamente quello di Maier e Seligman (1976) sull’impotenza appresa, ci suggeriscono che, benché esista la reale possibilità di prendere la via della libertà, questo non significa che gli animali, come le persone, scappino effettivamente. In questi casi vi è quindi una rinuncia a fuggire dal dolore e dal trauma. Piuttosto che rischiare di sperimentare nuove possibilità, si rimane bloccati nella paura che già si conosce.
In altri esperimenti si è visto come gli animali spaventati tornavano alla tana, indipendentemente dal fatto che questa fosse sicura o meno. Questi esperimenti fanno pensare a quelle persone che, cresciuti in ambienti traumatizzanti, provenienti da famiglie abusanti, anziché fuggire, vi fanno ritorno, finendo per essere ripetutamente feriti. È come se le persone traumatizzate fossero condannate a cercare rifugio in ciò che è familiare, anche se ciò che è familiare è proprio il trauma.
Nelle persone traumatizzate sembra esistere una sorta di “dipendenza dal trauma”: esse rivivono o ricercano spesso esperienza forti, dolorose e pericolose, ma la ripetizione porta con sé ulteriore dolore. Secondo alcuni studi (B.A. van der Kolk, M.S. Greenberg, S.P. Orr, 1986; Beecher, 1946), sembra che ciò possa dipendere dal fatto che, per molte persone traumatizzate, la riesposizione allo stress potrebbe fornire una sensazione simile alla percezione del sollievo dall’ansia.
Concludendo, credo sia importante ricordare come l’evoluzione della scienza e, in particolare i contributi delle neuroscienze, hanno permesso di ampliare in maniera consistenze le conoscenze relative al trauma psichico, ai suoi meccanismi e alle sue conseguenze. Tutto ciò, non solo si riflette nelle modifiche apportare in materia nel DSM V, ma ha anche una ricaduta positiva sulle possibilità di intervento e di cura.
BIBLIOGRAFIA
American Psychiatric Association (APA) (2000), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, IV Edizione, Text Revision, tr. It. Masson, Milano 2001.
American Psychiatric Association (APA) (2013), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, V Edizione. Trad. It. Raffaello Cortina, 2014.
Beecher H.K. (1946), Pain in men wounded in battle, in Annals of Surgery, 123(1), pp. 96-105.
Herman JL (1992b), Guarire dal trauma: affrontare le conseguenze della violenza, dall’abuso domestico al terrorismo. Trad. It. Edizioni Scientifiche MaGi, Roma.
Krystal H (1988). Affetto, Trauma, Alessitimia. Roma 2007: Edizioni Scientifiche MaGi.
Maier S.F., Seligman M.E. (1976), Learned helplessness: Theory and evidence, in Journal of Experimental Psychology: General, 105(1), p.3.
Van der Kolk B.A. (1996). The body keeps the score: memory and the evolving psychobiology of posttraumatic stress. Harv Rev Psychiatry, 1(5), 253-265.
Van der Kolk B.A., Greenberg M.S., Orr S.P. (1986), Pain percepition and endogenous opioids in post traumatic stress disorder, in Psychopharmacology Bulletin, 25, pp. 117-121.
Van der Kolk B.A. (2014). Il corpo accusa il colpo. Trad. It. Raffaello Cortina, 2015.
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