di Anna Rita Cerrone, psicologo clinico e psicoterapeuta
J.P. Sartre (1958) direbbe che il mio corpo non è un corpo, uno dei tanti oggetti-corpo, esso è irriducibilmente mio perché è tutt’uno con il soggetto che io sono. Il mio corpo è intriso della mia soggettività, è corpo-soggetto, non è solo schema o qualcosa che io ho: “Io sono il mio corpo”. Siamo abituati a distinguere corpo e anima come due entità autonome, ma in questa separazione ci tagliamo malamente in sezioni o parti separate, con il bisturi della nostra mente. Il “corpo vivente e vissuto” esprime l’incarnarsi della coscienza e la coscienza fatta carne ci racconta chiaramente che siamo unità indivisa e indivisibile di corpo animato.
Il corpo che sono rifiuta, accoglie, è esposto continuamente, è parola delle mie ferite e dei miei bisogni, è territorio di confine tra quanto traduce del mio personale vissuto e quanto raccoglie e trascende attraverso l’incontro con l’altro.
Come possiamo ridurre il corpo alla sua compagine somatica, alle sue funzioni fisiologiche e al solo statuto di strumento vitale necessario ad abitare il mondo? Dire che si ha un corpo non basta: ma essere corpo è tutto. Possiamo scoprire, strada facendo, il nostro essere corpo, coscienza incarnata in quanto esserci al mondo, sorgente originaria di significato e di donazione di senso, attraverso i vissuti che fanno la nostra esperienza.
Questo corpo che siamo è campo di espressione e di relazione, realizza le mie intenzioni perfino prima che io le pensi nella dinamica interazione con il mondo, perché non siamo solo una parte di quel mondo che abitiamo ma contribuiamo a costruirlo.
Il corpo è infatti intermediario imprescindibile nell’incontro con l’altro. Non solo è presente alla mia coscienza e non si esaurisce in questa funzione. Nel mio corpo io mi attuo completamente, nella dimensione della corporeità mi rivelo pienamente e l’altro si rivela a me. Così in questa consapevolezza, il mio corpo è più di semplice presenza, è insieme presente e partecipante alla mia vita interiore e alla vita di relazione, esprime e agisce la mia piena intenzionalità.
Ma questa dimensione di presa di coscienza del corpo che si è, non è data a priori. È preziosa conquista che si raggiunge. Integrazione e sintonizzazione tra parti della totalità che siamo e parti della totalità di sistema che siamo con l’altro.
Possiamo raggiungere piena presenza nell’esperienza di noi stessi e nell’incontro con l’altro oppure possiamo stare nel mondo ad occhi chiusi, come bendati, perfino spaventati da quanto percepiamo. Talvolta intuiamo che c’è una pienezza al di là dei nostri automatismi, al di là di quei caratteri e di quelle funzioni del corpo che ci sembra di conoscere ma che diamo per scontati e che possono perfino diventare gabbie, corazze delle quali non conosciamo i segnali di accesso o di uscita o di trasformazione. Il corpo allora intrappola, diventa sintomatico, sconosciuto e perfino estraneo, misterioso nelle sue espressioni.
Ma il corpo che sono lo posso recuperare, di volta in volta, riasserire, conquistare pienamente attraverso il percorso di apertura ad una vera relazione umana, che sappia sanare, rigenerare. Le emozioni sono sempre incarnate. Non possono prescindere da questa natura.
Cosí posso sentirmi me stesso in carne e ossa e sentire con l’altro il tessuto di un dialogo che mi riappropria del mio essere unità indivisa, posso arrivare a scoprire l’altro attraverso la parola muta ed eloquente di codici che non mentono. I codici del corpo e il senso del mio corpo, di quello altrui.
Sperimentare l’autenticità dell’incontro con l’altro. Così il cuore che pulsa a diverse frequenze, la respirazione diaframmatica, la sensibilità muscolare, il radicamento al suolo e l’equilibrio diventano esperienza che può essere colta nella sua interezza.
La coscienza di come stiamo in un movimento, l’esserci pienamente in un passo condiviso oppure disperdersi, percepire il disagio, disorientarsi o ritrovarsi nel reciproco accordarsi, sono parola di corpo. La nostra capacità di entrare e uscire in modo più o meno armonico da un abbraccio comunicano segnali importanti della nostra realtà.
Ci raccontano chi siamo e dove siamo nel qui ed ora di ogni incontro, sia pure nei termini di emozioni spiacevoli che possono essere trasformate, solo se attraversate pienamente.
Ed ecco che l’esperienza della tangoterapia diventa avventura di consapevolezza, comunicazione interpersonale fatta del corpo che siamo, condivisione e ricerca di sintonizzazione sensoriale ed emotiva, scoperta di sé nell’incontro delle proprie resistenze, delle proprie attitudini. In ogni abbraccio posso incontrare la connessione profonda e necessaria con affetti che rimandano alle mie impronte o a quelle dell’altro. Impronte di storia personale che sempre nasce e si agisce nella relazione, fin dalla nascita.
Nel qui ed ora di un incontro autentico con l’altro ritrovo infatti vissuti antichi, fatti di energia bloccata o liberamente fluttuante, di stati psico-fisici collegati al contatto e allo scambio, trovo il desiderio generato o negato. Nel contatto trovo la possibilità di trasformare il senso di rifiuto in accoglimento, la distanza in prossimità, il senso di invasione in spazio condiviso.
Quali sono gli strumenti della danza e come possono i codici del tango confrontarmi con questi vissuti che vogliono riempirsi di senso? La danza e la danza del tango è metafora esistenziale. Relazione e rispecchiamento nella coppia che diventa sistema, che si congiunge, non sempre facilmente.
Il tango si fonda sull’alternanza, sulla comunicazione che si gioca attraverso ruoli complementari, che rimandano al maschile e al femminile. L’uomo guida, propone e conduce, la donna accoglie, contiene e risponde ma non è tutto, poiché, nel gioco flessibile delle parti, esercitiamo o impariamo ad esprimere aspetti di noi stessi che solitamente tratteniamo in definizioni rigide. Maschile e femminile infatti appartengono ad ognuno di noi, nella visione di una mente duale che sa contenere un aspetto della vita ma anche il suo opposto. Citando Jung, possiamo menzionare gli archetipi dell’Animus e dell’Anima. Sempre nel rapporto con l’altro, riversiamo questa nostra complessità. Dunque le nostre componenti inconsce dell’altro sesso si rivelano, nelle loro reciproche combinazioni di energia dominante o sottesa e nell’abbraccio di un tango, come in quello della vita, vogliono e possono trovare integrazione.
Non è forse questo il senso dell’intensità e della potenza energetica che incontriamo nell’ abbraccio? Che ci confronta con la complessità sconfinata che siamo, che è l’altro? E se non siamo consapevoli di questo, quali e quante ombre si scatenano in quell’abbraccio di vita che diventa opprimente?
Ma possiamo scoprire la pienezza, nel dinamico fluire dei corpi in movimento, roteanti, ricettivi e flessibili. Poiché il movimento condiviso è azione creativa di un gesto unico che si fa armonico, nell’aggiustamento reciproco e attraverso il quale acconsentiamo a liberarci delle bende invisibili che ci fasciano di rigidità.
Tutto è comunicazione da riscoprire, attraverso la coppia in ballo, che è relazione. Relazione d’impatto centrata sul corpo che dialoga, che deve imparare a non confliggere, a non prevaricare, a non invadere.
Cosi lo sguardo che ricambia l’intesa o che si ritrae ci confronta con i nostri bisogni di accettazione e con i timori di esclusione. La camminata come le pause, nella coppia intenzionata all’unisono, rimandano al movimento e all’immobilità, dimensioni che possono essere sentite piene o vuote, consistenti e appaganti oppure disarmoniche e frustranti. In effetti facciamo i conti con le nostre polarità interne, uguali e contrarie, accettate o negate.
L’asse condiviso e l’equilibrio, il controllo e l’abbandono, la solitudine e la connessione: grandi temi esistenziali, grandi scoperte della nostra vita interiore, alle quali la nostra coscienza può accedere e attingere pienamente, che possono riempirsi della consistenza del senso solo attraverso un’esperienza che traduca in risorse ciò che spesso sentiamo come sfida faticosa dell’esistere.
Come non parlare della postura, tanto importante nel fare tango come nello stare al mondo: stare dritti su sé stessi o abbandonare il proprio asse per qualche istante, in avanti, all’indietro, di lato e quindi lasciarsi sostenere in alcuni movimenti, come giusta combinazione tra la fiducia in sé e quella riposta nell’altro da sé.
La tensione muscolare, la rigidità che si può tradurre in fluidità e piena rispondenza del tono muscolare, sono le nostre tracce interne, sono cioè stati che corrispondono in modo inadeguato alle nostre intenzioni, a quel che stiamo provando e pensando, la cui autentica espressione abbiamo smarrito; ma possiamo ritrovarle.
Abbiamo bisogno di riconoscerle, di riappropriarcene, per darle all’altro e per raccogliere le sue: esserci per veicolare un’intenzione chiara piuttosto che ambigua, consapevole piuttosto che proiettiva.
Solo nel territorio di questa conquista personale del corpo che siamo, il corpo della relazione si dispiega armonicamente, diventa generativo di un nuovo sistema circolare e vitale.
Un apprendimento, questo, fatto di esperienza, un’esperienza emotiva guidata e protetta, che diventa occasione per rigenerare, ricostruire, riparare ciò che in noi può essere sentito come ferita o separazione. Un’esperienza di passi di ri-creazione, di completamento di ciò che sentiamo incompiuto in noi stessi. Sentire e danzare il tango argentino diventa strumento terapeutico di un incontro che può toccare le nostre radici, come linfa che nutre e si dirama. Solo così possiamo conoscerci, abbracciarci pienamente, nel rispetto accettarci, infine salutarci e, grati, ripartire.
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