Il mare dentro di noi.

Quando la vita è uscita dall'acqua

IL SIGNIFICATO DEL LINGUAGGIO

Circa trecento milioni di anni fa un teleosteo fece capolino per un intervallo stranamente più lungo fra una boccata d'acqua e l'altra e sbirciò tra le immense foreste palustri del Carbonifero. Lo spettacolo che gli si presentò dovette apparirgli a dir poco squallido e soprattutto mortale, come sarebbe apparsa la luna a un Armstrong sprovvisto di scafandro protettivo.

Se questo nostro irriconoscibile antenato avesse potuto prevedere che il cammino evolutivo lo avrebbe portato a dimorare permanentemente in quell'ambiente ostile, precludendogli per sempre il ritorno alla ineguagliabile dimestichezza con la matrice marina, in preda ai più evidenti sintomi della paura, avrebbe voltato le reni aglomerulari al proprio futuro (anziché al passato come poi è avvenuto) e sarebbe corso a rifugiarsi rabbrividendo nel più profondo abisso (per lui tutt'altro che spaventoso) del tiepido mare preistorico.

Avrebbe comunicato il suo terrore intorno a lui. Attraverso profondo abisso (per lui tutt'altro che spaventoso) del tiepido mare preistorico. Avrebbe comunicato il suo terrore intorno a lui, attraverso quella materializzazione dell’inconscio collettivo, quel tessuto connettivo che è il mare per la vita che lo abita. E la terraferma rimasta dominio incontrastato della vita vegetale. O forse no, forse, quando i primi pionieri del mondo animale approdarono alla terraferma, seguendo la pista già battuta dalle Licopodiacee e dalle Sigillarle, in loro c'era il senso del destino che doveva compiersi e in qualche modo essi "sapevano" che da quel momento in poi avrebbero conosciuto una nostalgia (etimologicamente "dolore del ritorno") che non li avrebbe abbandonati mai più. Senz'altro però questa grande avventura non avrebbe potuto essere affrontata senza una "coperta di sicurezza" che facilitasse una proustìana ricerca tempo perduto in chiave Come Wurdhalak  transilvano (il "vampiro" delle  leggende) che, malgrado tutto ispira  una certa tenerezza con il bisogno di portarsi appresso la bara con la terra madre su cui riposare, così anche gli Amnioti hanno dovuto fare in modo di portare con sé un pezzo di quel mare che permettesse loro di continuare  a vivere l'illusione del tempo perduto in cui vita e morte erano molto meno differenziate che nel nuovo mondo e in cui il fuori da sé aveva un significato meno spaventoso.

Rinunciare all'acqua

Di solito, in rettili mammiferi e uccelli, l'apparato uropoietico viene considerato solo e soprattutto come un insieme di organi aventi fine emuntorio. In realtà sarebbe più corretto considerarlo come ciò che permette la nostra sopravvivenza, creando e mantenendo dentro di noi un embrione dell'oceano originario, di quel "brodo primordiale" che costituiva gli oceani primigeni della terra e in cui si crearono le condizioni per la nascita delle prime catene organiche, origine della vita quale noi la conosciamo.

Fuori fa freddo e vento e sole succhiano agli organismi la loro linfa vitale, dentro invece è ancora caldo e umido e quieto. Senz'altro si stava meglio nell'acqua tiepida del Cambriano. Staccarsi dal mare ha significato rinunciare a questa estensione di sé al di fuori dei confini del proprio sangue, a questa vita diffusa al di là dei confini del proprio corpo, nel mare intorno, e attraverso ad esso nel corpo di tutti gli altri organismi. Ma è pur vero che staccarsene ha significato anche nascere ad una individualità più antientropica, più puntuale e concentrata e forse più cosciente.

Il costo è la solitudine, la consolazione è la ricchezza del lutto. L'amore, che l'abitante dell'acqua ha per l'ambiente che lo nutre e lo scalda, il terrestre lo rivolge verso se stesso, simbolo di un mondo scomparso, tabernacolo dei suoi ricordi più antichi. Egli combatte quindi con ostinazione omeostatica, per mantenere vivo non solo se stesso, ma tutto il passato che rappresenta; ogni  forma di vita terrestre è un po' il centro di un universo, arricchito con valori recuperati proprio dall'esterno.

Chi è rimasto nell'utero del mare ha conservato dei tempi antichi un ricordo forse meno intatto. li caldo mare del Cambriano è diventato più freddo e meno ricco di sostanze vitali, ma chi vi abita è cambiato con esso e non se ne è accorto. Allora non c'era bisogno di un meccanismo termoregolatore che scaldasse il sangue, né soprattutto di un apparato renale perfezionato che mantenesse un certo equilibrio idrosalino, o che filtrasse grandi quantità di liquidi. Il "cadetto" che ha lasciato l'acqua natale tanto tempo fa ha invece conservato dentro di sé l'esatto ricordo del calore di allora e sangue e urina in lui sono quotidiana testimonianza dell'antico mare.

Ma per fare quel passo decisivo, ha dovuto sviluppare anche un rene più complesso che si preparasse a un assedio lungo tutta l'esistenza, ininterrottamente. Nell'estremo momento la delusione della morte coinciderà con la scoperta di un mondo troppo vuoto e pesante, di un cielo troppo lontano e angoscioso, di un sole troppo assetato e diretto, e con la decisione di ritornare al sicuro, nel grembo della terra, nuova madre adottiva, per riposarsi a buon diritto anche da questa fatica.

La dimensione dell'essere

Il rene quindi riproduce all'interno del corpo !a condizione necessaria perché ci sia vita, filtrando il sangue ma soprattutto amministrando e regolando il ricambio idrosalino; nell'uomo in particolare rappresenta la condizione dell'essere, il femminile, che si contrappone o semplicemente precede il fare, tipicamente maschile. Nell'ambito di questo "habitat" ricreato si svolgono tutte le attività funzionali del corpo, compresa quella sessuale. Quest'ultima vi è più direttamente correlata: il sangue appena filtrato rappresenta ciò che di più analogo esiste nell'organismo all'oceano, matrice della vita, ed è quest'acqua rinnovata, e quindi ricca di energia pronta ad essere utilizzata, che viene convogliata verso l'apparato genitale.

Nel rene viene separata l'energia controllabile da quella incontrollabile, l'acqua dal fuoco, il fuoco che scalda da quello che brucia e distrugge. Mentre il primo affluisce benefico nei genitali maschili e nel ventre femminile, rigenerandoli in attesa del loro momento creativo, il secondo verrà espulso sotto forma di urina, espressione somatica — come evidenzia il suo nome, da urere = bruciare — dell'aggressività uretrale, dannosa solo nel caso però in cui il destinatario di questo messaggio corporeo sia una forma di vita sensibile al suo contenuto distruttivo. Ma in un contesto sradicato da quella circolarità biologica che dovrebbe essere la norma, questo è il significato che viene dato per lo più alle deiezioni liquide.

Il ciclo dell'azoto

Come abbiamo visto ne! numero dedicato alle coliti, le feci racchiudono una simbologia poliedrica e piuttosto complessa. Un sano andare di corpo può essere lecito motivo di autocompiacimento, in quanto testimonianza di quell'aggressività così indispensabile per i "cuccioli" invitati a nutrirsi al grande seno di Cibele. Esse rappresentano anche la tristezza di una mensa deserta, quando il banchetto è ormai solo un ricordo, o il lutto comune a tutti i momenti di separazione. Più uniforme, anche se altrettanto complesso, è invece il significato connesso alla funzione urinaria. Anche la minzione è l'espressione del bisogno di liberarsi da qualcosa che è morto, ma più intenso e incontenibile.

Le feci sono ciò che è e rimarrà altro da me, ciò che, in connessione al cibo che le ha originate, mi definisce per differenza. L'urina rappresenta il pallido fantasma del sangue, testimonianza non tanto della rinuncia ad un possesso (come le feci), quanto di un distacco, di una perdita molto più intima ed essenziale. A un bisogno impellente di liberarsene non segue alcun compiacimento, ma solo un senso di pace, vuoto e solitudine. Morire e ritornare in grembo alla Madre terra, renderle quello che essa ci ha prestato senza interessi, soprattutto quell'azoto che, malgrado il suo nome (etimologicamente, "non produttore di vita"), è stato conquistato così faticosamente dalla vita alla vita, mutando la sua amorfa consistenza nel colore e negli effluvi di quest'ultima.

L'urina è azoto pronto ad essere utilizzato, prima che se ne torni nell'atmosfera, costringendo a un doppio lavoro lo sterminato esercito di microrganismi incaricati della sua fissazione. Ma per noi essa è soprattutto qualcosa di fastidioso e aggressivo. Come abbiamo rinunciato a seppellire i nostri morti nella nuda terra, saldando per conto loro un debito contratto con essa dalla nascita e riconoscendo un antico ed universale sodalizio, così facciamo con il nostro "sangue morto", ingombrante testimonianza di un mondo la cui perdita abbiamo timore di riconoscere.

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