Quando parlo di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSAp) mi riferisco ad una macro-categoria di disturbi del neurosviluppo, che comprende dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia. Rispettivamente le criticità possono riguardare l’ambito della lettura, della scrittura e del calcolo. La diagnosi di DSAp, con relativa certificazione ai sensi della legge 170/2010, tutela gli studenti che presentano tali problematiche nel corso del loro percorso scolastico.
Sicuramente tale relazione può rappresentare un sollievo per i genitori, i quali finalmente possono dare un nome alle difficoltà del figlio, ma dà vita ad un’altra lunga serie di interrogativi.
Sì perché io me li immagino, mamma e papà, che escono dall’ambulatorio del neuropsichiatra infantile o dello psicologo con in mano una relazione. Sopra c’è scritto che il loro A. (ma potrei chiamarlo in mille altri modi) ha un Disturbo Specifico dell’Apprendimento.
Me li immagino, mamma e papà, che si avviano in silenzio verso la macchina, mentre la testa scoppia di domande.
Me li immagino perché quando ero una tirocinante ne ho visti un bel po’ di genitori con una relazione in mano da consegnare alla scuola, perché quel pezzo di carta certifica che le difficoltà di A. nella lettura, nella scrittura o nel calcolo (o in tutte e tre le aree) hanno un nome: Disturbo Specifico dell’Apprendimento, una sigla: DSAp. Sanno che, alla luce di quanto scritto sulla relazione, A. potrà usufruire di strumenti compensativi e dispensativi appropriati, ai sensi della legge 170 del 2010.
C’è scritto tutto, insomma. Tranne la risposta a tutte quelle domande che rimbombano nella testa di mamma e papà.
“Se non accetta l’uso degli strumenti compensativi e dispensativi?”, “Se si considera un fallimento?”, “Se si sente diverso dagli altri bambini?”
Lunedì ho partecipato al convegno “Non uno di meno”, organizzato dall’Associazione Italiana Dislessia (sezione di Firenze), al quale hanno preso parte non solo addetti ai lavori, ma anche tantissimi genitori in cerca di risposte.
Mentre scrivo mi viene in mente proprio la domanda di una mamma, fresca di diagnosi e, di conseguenza, neofita del mondo DSAp. Chiede come può aiutare la figlia con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento a sviluppare le sue risorse. Già, perché spesso si commette l’errore di vedere in una diagnosi solo un limite, una condanna, anziché far passare il messaggio ai genitori, ma soprattutto al minore, che lui non è affatto quella diagnosi, non è una certificazione da portare a scuola. Di qui la vergogna di sentirsi diverso, il rifiuto degli “aiuti” che gli spettano per legge, fino alla totale perdita di interesse e motivazione per tutto ciò che riguarda l’apprendimento.
Questa mamma, probabilmente, è consapevole che si può fare molto perché la diagnosi non diventi un marchio, un motivo di diversità. Ma come si scoprono queste risorse? Come si sviluppano? Innanzitutto partendo proprio dal presupposto che ogni bambino o ragazzo è diverso e quindi ognuno avrà delle debolezze e dei punti di forza diversi dagli altri. Questo non vale solo per i soggetti con problemi nell’apprendimento, ma per tutti i bambini. Ecco un primo aspetto che ci dice proprio perché siamo “uguali e diversi”, per riferirsi al sottotitolo del convegno sopra citato.
Nel concreto, insomma, sarebbe opportuno lavorare per l’individuazione del metodo di studio più appropriato per il minore, perché di sicuro non ne esiste uno solo; sarebbe doveroso sfruttare quelli che, dopo un’attenta valutazione, risultano essere i punti di forza del suo funzionamento. Può essere l’attenzione, può essere la velocità di elaborazione, può essere la comprensione verbale… in questo possono darci molte informazioni la valutazione cognitiva e del profilo funzionale. In base a questi dati, sarà impostato il percorso riabilitativo e di potenziamento, partendo proprio da quelle che in gergo si definiscono parti sane.
Ciò non significa, comunque, che tutto il resto potrà essere trascurato. Intendo la motivazione allo studio, l’autostima, il benessere scolastico. Non dimentichiamoci mai di rinforzare i progressi, anche se piccoli, dello studente. Ne gioveranno davvero la sua motivazione e la sua autostima. Non se ne deve dimenticare mai l’insegnante in classe, il genitore a casa, il professionista che lo segue.
“E se si sente diverso?” Ecco, in tal caso è la scuola che deve prendersi carico dell’inclusione, adottando modalità di coinvolgimento del minore in classe. L’insegnante dovrebbe occuparsi di far passare il messaggio che gli strumenti compensativi che il bambino utilizza potrebbero essere utili per tutti. Coinvolgere i compagni nella costruzione di mappe concettuali, ad esempio, potrebbe essere una buona strategia di inclusione, che, tra l’altro faciliterebbe l’apprendimento della classe intera.
In conclusione, una buona sinergia tra la componente clinica e quella scolastica, oltre che la collaborazione preziosissima dei genitori, possono rendere A. un bambino che pur presentando un Disturbo Specifico dell’Apprendimento, ha sviluppato strategie che gli permettono di affrontare serenamente la vita di studente.
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