Negli ultimi anni si è diffusa una strana concezione della maturità dei propri figli da parte dei genitori, questa infatti, spesso è confusa con l’autonomia. Un concetto a cui viene data importanza fin dalla scuola materna. Infatti essa rappresenta il criterio che fa la differenza fin dai primi anni “sociali” del bambino. La credenza è: “Il figlio è autonomo, dunque va bene”. È sicuramente desiderabile e giustificata l’aspettativa da parte di un genitore che un figlio sappia fare molte cose da solo invece di essere sempre dipendente da altri. Tuttavia l’autonomia non va valutata nell’allacciarsi le scarpe a 5 anni, prepararsi lo zaino a 10, scegliersi i vestiti a 15, o essere capace di fare una raccomandata all’ufficio postale a vent’anni. A questo punto però una domanda nasce spontanea: realmente l’autonomia esprime appieno la maturità dei figli? Molti genitori desiderano per i figli qualcosa di più: essere capaci di risolvere da soli i loro problemi è utile, ma è troppo poco.
Infatti accanto alla convinzione che un figlio debba essere autonomo (o maturo?) c’è la seconda condizione intesa come garanzia di una vita realizzata: è lo studio, la buona carriera scolastica, e in seguito il master prestigioso e l’inglese fluente. Tutti beni desiderabili, ovviamente. Ma viene da porsi una seconda domanda: davvero tutto ciò è decisivo? Si gioca davvero su questo terreno la partita della vita riuscita? Tutti abbiamo avuto a che fare con persone che pur parlando fluentemente una o più lingue, pur possedendo titoli accademici importanti sono incapaci di prendersi le proprie responsabilità lasciando dietro di sé scie di dolore e persone distrutte o arrabbiate.
Forse la cosa decisiva è che i figli imparino a essere buoni. A scoprire e a coltivare la bontà d’animo che hanno e si sforzino di attenuare i loro difetti. Questi, infatti rappresentano delle disposizioni emotive che rendono difficile e a volte impossibile voler bene a qualcuno ed accorgersi di essere amati. Forse il vero capitale su cui puntare è la loro bontà d’animo, in parte già data e in parte da conquistare. Soprattutto dando esempi positivi; spesso sono proprio i genitori che con i loro comportamenti incidono negativamente sui figli. È proprio su questo terreno che si gioca la partita della realizzazione personale. Eppure per un’insufficienza in inglese la famiglia si allarma, si mobilita, è disposta ad affrontare delle spese. Se il figlio è egoista, pensa solo al suo tornaconto e non si sforza di voler bene ai fratelli, alle sorelle ai genitori e agli amici, non suona nessun allarme. L’attenzione dei genitori in quel caso cambia orientamento, il padre pensa che così non si farà mettere i piedi in testa da nessuno e la madre che non vivrà le sue stesse sofferenze, quindi, tutto sommato…meglio così.
Infatti è menefreghista, pretende, pensa solo a sé e usa gli altri per il suo tornaconto. Non ci sarebbe molto di cui essere contenti ma tutti trovano la cosa normale, l’importante è che sia autonomo e che a scuola vada bene. Cosa succederà se nell’adolescenza quel bambino che i genitori hanno voluto autonomo coltiverà più l’individualismo a discapito degli altri? Cosa succederà se per raggiungere i suoi scopi penserà che sia lecito usare tutti i mezzi e scavalcare gli altri senza tener conto dei loro sentimenti? Legittimerà i suoi lati peggiori e non proverà la voglia e il gusto di diventare una persona migliore. Migliore perché buona.
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