Dopo aver superato le avversità dei primi anni di sviluppo dei bambini, la coppia genitoriale si trova ad affrontare un’ulteriore e durissima prova: essere genitori di un adolescente.
Ed è proprio in questo momento che frequentemente si trova a valutare la possibilità di chiedere una consulenza psicologica, spessissimo per il figlio, vissuto, d’un tratto, come irriconoscibile ed estraneo, certo difficilmente paragonabile all’amabile pargoletto che era in precedenza.
Purtroppo, o per fortuna a seconda dei punti di vista, quando un adolescente viene obbligato a fare qualcosa, l’esito è quasi sempre disastroso, a maggior ragione se l’obbligo consiste nel trascorrere un’ora alla settimana a colloquio da uno psicologo a cui raccontare presunte problematiche di diversa natura.
L’esperienza maturata negli anni e soprattutto la grande opportunità che ho avuto avvicinandomi con rispetto e delicatezza al mondo adolescenziale nelle scuole, mi ha insegnato che l’approccio meno redditizio a livello relazionale è proprio questo: avere la presunzione di sapere a priori cosa c’è nella testa dell’altro, magari aggiungendoci quel pizzico di giudizio (dovuto indubbiamente alla nostra “adultità”) su ciò che è giusto e sbagliato.
La chiave di volta che innesca il cambiamento positivo nelle dinamiche genitori-figli è quasi sempre il passare da una posizione asimmetrica e proiettiva che possiamo riassumere nella frase: “Dottoressa le porto mio figlio perché non mi ascolta, è sempre rabbioso, non mi racconta più nulla e credo che abbia dei problemi”, ad una posizione in cui tutti sono allo stesso livello e chiamati a mettersi in gioco, magari in questo modo: “Dottoressa facciamo un colloquio tutti insieme perché non riusciamo più ad ascoltarci, parlarci, capirci e questo crea un clima di tensione in casa”.
In quest’ultimo caso ogni membro del sistema famiglia rappresenta una risorsa per generare processi positivi di cambiamento. Non esiste un paziente designato (il figlio adolescente), chi è esasperato dai suoi comportamenti (molto spesso la madre, depositaria di una serie di compiti educativi che ruotano intorno alla scuola e alla vita della famiglia), chi “se ne chiama fuori” (frequentemente il padre che, stanco dopo una giornata di lavoro, evita di prendere parte alle infinite discussioni madre-figlio) o chi osserva (fratelli e sorelle che gravitano ai lati delle conflittualità ma non ne sono certamente immuni).
A colloquio quindi non c’è l’adolescente, come se questa fase evolutiva fosse un disturbo, ma c’è una famiglia, una matassa di relazioni, affetti, desideri e aspettative, perturbata da un’impasse comunicativa che crea rabbia e sofferenza.
In seguito sarà cura del professionista discriminare tipologia ed entità del disagio e proseguire il percorso psicologico o psicoterapeutico con la coppia genitoriale o con l’adolescente.
In quest’ultimo caso la grande fatica iniziale del professionista sarà quindi quella di costruire una solida alleanza di lavoro con il ragazzo che lo potrà poi identificare come degno di fiducia e in grado di comprenderlo in assenza di giudizio. Solo a questo punto sarà possibile lavorare con l’adolescente al fine di creare una possibilità di dialogo costruttivo volto alla comprensione e alla reciprocità con le figure genitoriali.
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