I Genitori nella psicoterapia dell'adolescente

Se vogliamo trovare una caratteristica specifica ricorrente nell’infinita varietà dei modi di essere che gli adolescenti portano in psicoterapia (e nella vita!), ecco, questa è la propensione all’agito, all’agire. Il che rende spesso assai complicato per l’adolescente il capire e il capirsi.

E la “presenza” dei genitori – nel suo manifestarsi sotto il profilo sia realistico che fantasmatico – costituisce una realtà ineludibile per il setting psicoterapeutico. Così quest’ultimo assume una “complessità ulteriore” che, entrando in risonanza con le altre confusioni, ben si inserisce nel quadro della condizione adolescenziale.

La presenza dei genitori oscilla in un “continuum” ai cui estremi troviamo l’interferenza e l’intrusività a un capo, fino ad arrivare al riguardo (riservatezza) spinto ai limiti dell’indifferenza all’altro capo. I figli esprimono più o meno intensamente il conflitto tra il rifiuto insofferente delle attenzioni genitoriali (in nome di una autonomia considerata per raggiunta) e la critica feroce per la loro distanza: di solito affermano che, se fossero nei panni dei genitori, agirebbero in modo diverso e sicuramente migliore.

Rispetto al disagio manifesto di un figlio, nei genitori entrano in gioco parti indistinte, poco conosciute, che sembrano collocabili sia nel mondo interno dei genitori stessi, sia in parti del figlio che riguardano il suo inconscio ricco di suggestioni, proiezioni, identificazioni primarie e più evolute. Lo stesso nell’adolescente. Tali parti sono chiamate in causa prepotentemente dai rimandi associativi e dal transfert con il terapeuta.

La funzione del terapeuta si con figura, allora, come un accoglimento di tale “presenza”, che possa ammortizzare l’impatto realistico sia da una parte che dall’altra: lo scopo sarebbe favorire la strutturazione di un setting che permetta di sviluppare nei genitori, anche attraverso la presa d’atto della situazione dei loro figli, la consapevolezza dei vissuti fantasmatici che reciprocamente li attraversano. Un compito non semplice: transitare da una dimensione di genitori preoccupati, arrabbiati, traditi e danneggiati ad una di genitori che devono porsi in ascolto e sostegno dei bisogni più profondi del figlio sembra un passaggio arduo.

A volte occorre costruirsi degli spazi rituali, dove, scambiandosi riflessioni sugli accadimenti del giorno, genitori e figli possano cercare un contatto a un livello emotivo più profondo.

Altre volte occorre imparare a distinguere i fantasmi dalla realtà per accettare quest’ultima se si desidera modificarla.

 

Caso clinico

Tommaso ha 18 anni ed  è in terapia dall’aprile dell’anno scorso, da quando cioè i genitori allarmati dal pagellino e temendo una nuova bocciatura, si erano rivolti a me perché parlassi con Tommaso.

Quando arriva una nuova telefonata del padre di Tommaso poco prima della seduta del figlio, siamo ormai a fine giugno e Tommaso è appena riuscito ad ottenere una promozione quasi insperata, sebbene con tre debiti formativi. Il padre mi riferisce di un grosso diverbio con Tommaso nel quale sono quasi venuti alle mani (padre e figlio sono quel che si direbbe due armadi).

C’è stata una diversa e contrapposta lettura di questa promozione all’origine di tale diverbio rispetto al suo scarso impegno scolastico. Poi tutto si è calmato. Ed è in questa calma apparente che Tommaso, in evidente stato di prostrazione, ha riferito al padre le sue fantasie autodistruttive qualora non fosse stato aiutato. Evidentemente però, in quel contesto né l’uno è riuscito a spiegarsi, né l’altro è riuscito a capire a che cosa si riferiva la richiesta d’aiuto. La voce calma e determinata del padre al telefono tradisce comunque il suo disagio  e provoca il mio disorientamento e la mia perplessità: non sembra interessato al grido d’aiuto del figlio e mi chiede con distacco cosa deve fare rispetto all’intenzione riferitagli da Tommaso di saltare la seduta.

Non occorre fare fatica per cogliere in questa richiesta tutta una serie di fantasmi angosciosi che vanno dal senso d’impotenza alla paura che il figlio possa essere davvero intenzionato a mettere in atto la sua minaccia. Così i bisogni di rassicurazione  del genitore angosciato (e qui si tratta di bisogni profondi riguardanti anche l’integrità del sé e la propria autostima)  si mimetizzano col suo bisogno di entrare d’imperio nella terapia del figlio “costringendolo” a venire in seduta, forse per lasciare nel vago e nell’ambivalenza il bisogno-timore di un suo più diretto coinvolgimento.

Scelgo di rimandargli che ha già fatto molto telefonando per comunicarmi la sua angoscia per la situazione in cui si è trovato e lo prego se possibile di farmi chiamare dal figlio. E’ possibile che, come lui sospetta, potrebbe essere rimasto abbastanza disorientato dall’accaduto.

Tommaso aspetta l’ora della sua seduta per chiamarmi: è coi compagni di classe a festeggiare la fine dell’anno scolastico, mille miglia lontano dalle angosce del padre. Verrà in seduta la settimana prossima e minimizza la rilevanza e il senso del diverbio col padre: non vuole che lo incontri.

Questa comunicazione sembra presentificare in maniera evidente quanto possano essere più concreti i tentativi di autoterapie degli adolescenti, che preferiscono negare le angosce (magari annegandole nell’alcol o facendo baldoria) rispetto a quelle pensate dagli adulti, che intuiscono la necessità di parlare per capire, e di capire per crescere.

Anch’io però mi scopro perplesso e ambivalente sull’occasione sfumata di incontrare direttamente il padre e magari lavorare con lui su quanto ha potuto capire del figlio.

Quando Tommaso poi arriva in seduta, è apparentemente calmo e distaccato abbozzando al suo disorientamento per l’atmosfera ovattata che ha trovato tornando a casa: i suoi genitori si muovevano come se non fosse successo nulla il giorno precedente. Siccome anche qui in seduta sembra che non stia succedendo niente, gli chiedo che cosa ha pensato della telefonata fatta da suo padre, ma liquida l’argomento come “normale”: il padre si infiamma per nulla e poi si spegne da solo in un breve volgere di tempo. Accenno a questo punto alla possibilità di lasciar fuori dal nostro lavoro il padre se lo crede, ma che potrebbe essere opportuno capire l’origine di quel suo bisogno di provocarlo con la minaccia del suicidio. Tommaso risponde ancora con distaccata sufficienza. Si scioglie solo quando accenno il riferimento nella telefonata del padre alla sua presunta incapacità di cavarsela da solo,  leggibile però anche in maniera evidente come una sua capacità di spaventare il padre e anche me attraverso il padre!

Da qui in avanti Tommaso, cosa che non aveva mai fatto in precedenza, lavorerà per parecchio tempo sui suoi sentimenti di inadeguatezza, di dipendenza, oltre che di scarsa fiducia rispetto alla possibilità di darsi una prospettiva di vita più soddisfacente.

A proposito della riservatezza della terapia, con questo paziente mi è capitato poco più avanti di fare un po’ i conti anche coi sensi di esclusione manifestati dalla madre fin dal primo colloquio. L’invito a ripensare il setting ha avuto in questo caso un effetto liberatorio.

All’ora di pranzo mi telefona  appunto la madre molto eccitata per parlarmi “di una cosa che la sta molto angosciando”. La ascolto preoccupato. Stamattina non ha  saputo resistere alla tentazione di aprire il cassetto di Tommaso in sua assenza e ha scoperto dei pacchettini strani e dei soldi che secondo lei Tommaso non doveva (o non poteva) avere. Ha letto anche il quaderno degli appunti del figlio e si è inquietata molto, ma non mi ha riferito il contenuto. Ora vuol sapere da me come si deve comportare, ma mi avverte nel contempo che ritiene suo preciso dovere controllare i cassetti del figlio.

E’ un modo per dirmi che vorrebbe proteggere il figlio dalle tentazioni e dai pericoli cui può andare incontro se si avventura nel mondo. Ma anche un modo per dirmi che il figlio le sta sfuggendo di mano.

Le rimando che non ho dubbi sul fatto che lei possa avere dei buonissimi motivi per ritenere suo dovere fare quello che ha fatto. E’ che purtroppo poi rischia di trovarsi in difficoltà, come mi sembra le stia succedendo ora, nel gestire sia l’angoscia sia la rabbia da cui si sente invasa nei confronti del figlio. Aggiungo che meglio sarebbe se lei parlasse apertamente con Tommaso di quanto le è capitato di fare; e meglio ancora sarebbe se lei riuscisse a trovare in sé una maggiore fermezza per esprimere più liberamente i suoi dubbi al figlio circa l’ambiguità del suo comportamento in casa: se le era capitato di rovistare nei suoi cassetti era anche perché intuiva che le sue premure ansiose venivano lette dal figlio come continua infantilizzazione a cui lui cercava di sottrarsi nascondendole i suoi traffici. Aggiungo però che forse avremmo dovuto pensare insieme a un modo meno diretto per rimandare a Tommaso la sua inadeguatezza nella ricerca e nella sperimentazione della propria autonomia. Comunque mi riservavo di parlare col figlio rispetto a quella che sembrava una richiesta da parte della madre di una modificazione degli accordi che avevamo concordato all’inizio della terapia. La madre si dichiara d’accordo.

Il giorno della seduta di Tommaso la madre mi avverte all’ultimo momento che il figlio è a letto da tre giorni con la febbre a 39 (tracheite) e oggi non potrà venire. E’ però riuscita a parlare con lui e si è molto rassicurata quando ha saputo che si trattava di fumo “per uso personale”. Nel pregarla di farmi chiamare appena Tommaso starà meglio le faccio notare che al di là di tutto, mi sembrava fosse stata capace da sola di chiarire col figlio le sue preoccupazioni: la calma raggiunta e forse anche la ripresa della fiducia nella possibilità di capire e farsi capire dal figlio non rendevano più così urgente il rivedere la struttura del nostro setting.


Riflessioni

Il setting della psicoterapia con gli adolescenti qui è pensato come sufficientemente ampio da contemplare anche i genitori, certo non in modo strutturato e continuo, come può accadere nei trattamenti dei bambini gravi, ma nel senso di una possibilità che solo talvolta si realizza (magari in modo estemporaneo e apparentemente casuale, legato cioè alla situazione).

In questo modo la relazione terapeutica rispecchia maggiormente la complessità tipica del mondo adolescenziale.

Entra nel rapporto terapeutico non solo l’adolescente che si prepara a diventare un individuo adulto emancipandosi dalle aspettative familiari, ma anche quell’adolescente che ancora porta con sé i resti ambivalenti e irrisolti di essere “il” figlio di “quei” genitori.

Si tratta di una fitta trama di vissuti e fantasie che rappresenta un’area inconscia complessa, tessuta con l’ordito di aspettative e desideri genitoriali rispetto al rapporto con un figlio che crea problemi, e la trama delle ansie di un adolescente che, iniziando a separarsi da loro, mostra con più evidenza di altri la sua fatica di crescere.

In sintesi, tale modalità di setting, favorisce l’espressione e la conseguente elaborazione, di parti più estese dell’adolescente stesso, permettendo il raggiungimento di uno sguardo più consapevole sul suo poliedrico e movimentato mondo interno. Un tale setting sembra svolgere lo stesso ruolo facilitante che si attribuisce - usando una metafora desunta dalla teoria - al residuo diurno nei riguardi della rappresentazione onirica.

Tommaso, una volta constatato che il padre non era poi quella roccia granitica che sembrava, perché anche lui poteva spaventarsi davanti alle fragilità del figlio, ha potuto permettersi in terapia di accostarsi proprio a queste fragilità e parlarne liberamente forse perché il genitore è rimasto ai margini del suo spazio terapeutico. La madre a sua volta è stata accolta nella sua ansia e ha trovato da sé un modo per accettare nel figlio la sperimentazione di comportamenti trasgressivi.

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