L’adolescenza può essere considerata contemporaneamente come un punto di rottura, ricapitolazione e di partenza. Punti che si snodano a partire da ciò che si è strutturato fino al momento dell’emergenza puberale, ovvero con ciò che riguarda il discorso familiare, con il posto e la rappresentazione data al bambino all’interno della famiglia.
Di quale posto si può parlare nel caso del figlio con disabilità? Questi infatti introduce spesso in modo traumatico una rottura nella catena generazionale, mette in campo una variante familiare inattesa, porta con la sua presenza reale qualcosa che si colloca fuori da ciò che la famiglia aveva immaginato, fantasticato prima e durante la gravidanza. Inevitabilmente il piacere infantile si scontra con un programma abilitativo, riabilitativo, terapeutico, nel quale il bambino viene collocato in un continuo incontro con un altro non della famiglia, dell’intimità, ma con un altro estraneo, tecnico, del sapere sul suo
corpo e sul suo malessere/benessere.
Quindi per il bambino con disabilità e la sua famiglia si tratta intanto di fare i conti con esperienze che si collocano ‘fuori-intimità’.
Lo sforzo familiare sarà spinto in modo estremo per periodi più o meno lunghi, a volte per la vita intera, a cercare di elaborare il lutto del proprio bambino ideale, quello atteso, desiderato e mai nato e talvolta verso lo sforzo per cercare di riparare a ciò che manca al figlio, a ciò che non riesce ad essere.
La riparazione della ferita inferta da una nascita che per certi versi traccia un segno altro, diverso nella storia generazionale e genitoriale, è spesso difficoltosa e tormentata.
Al contempo sappiamo che la creazione, l’invenzione, come modalità soggettiva di dare statuto di dignità e di esistenza alla propria singolarità, è possibile solo a partire da una riparazione.
Un bambino che non realizza il desiderio genitoriale, nell’attenzione e nominazione dell’altro spesso viene collocato nello statuto esistenziale di disabile, come colui che è portatore di limiti. La ferita che il figlio porta con sé ed ha inferto ai genitori, ferita narcisistica, è dalla sua nascita sempre aperta, irrimediabilmente trattata, e considerata nella sua enormità, nel suo essere fuori dai confini pensabili. La responsabilità del sostegno alla crescita si smarca, dolorosamente, dal posto del genitore per confluire nella delega sull’altro terapeutico, come colui che sa, che può occuparsi e curare un figlio misconosciuto.
Lo sguardo dell’altro in adolescenza
La famiglia con figlio disabile come si posiziona davanti allo specchio? Fugge da ciò che questo gli rimanda, un corpo spesso disarmonico, un’immagine lontana dagli ideali, dalla norma, dal confronto con gli altri figli, uno specchio che rimanda il giudizio degli altri. Questo adolescente allo specchio riceverà un’immagine carica di tutte le costruzioni degli altri su di lui e contemporaneamente avrà la percezione di una presenza reale del corpo che è per certi versi immodificabile e si impone nella sua fissità. Se in adolescenza il passaggio è l’appropriazione della propria immagine (chi sono?), andando oltre le costruzioni dell’altro, e dandosi quindi un confine soggettivo e personale, il soggetto con disabilità resta spesso intrappolato dentro una ferita allo specchio che invece lo rimanda al passato, e rende dunque più difficile far cogliere ciò che di nuovo, inedito può scandirsi nella sua adolescenza.
Dove il nuovo e l’inedito, insieme all’appropriazione della soggettività, è ciò che consente di pensarsi nel futuro, in una prospettiva dunque progettuale.
Il tempo e lo spazio fisso, immobile, dell’esperienza soggettiva comporta il mantenimento della simbiosi con la famiglia, in particolare con la madre. Questo perché i genitori, con l’adolescenza, hanno nuovamente l’impatto traumatico della diversità del figlio, e terrorizzati da ciò che questo inevitabile cambiamento può comportare, trascinano il più possibile il periodo dell’infanzia per lo slittamento di questa fase di vita.
Ben presto il soggetto riconoscerà il divario della transizione adolescenziale, ad esempio quando al tutto dovuto e concesso infantile e familiare, si contrapporrà la chiamata in causa da parte dei pari, e dall’altra parte la via via crescente richiesta dell’altro sociale di prendersi comunque le sue responsabilità. In queste contraddizioni non è raro che l’adolescente viva stati di sofferenza anche piuttosto intensi, spesso depressivi, come esito e condensazione di ciò che è bloccato, che non riesce ad andare avanti, e che si stalla nella colpa e nella commiserazione. Altro aspetto di notevole importanza è il ‘fuori-intimità’ che questo adolescente sperimenta, spesso troppo invaso dagli altri per la cura dell’igiene personale e dai trattamenti terapeutici. Un corpo che è di diritto e libero accesso agli altri, e in cui è quindi difficile vivere, muoversi, conoscersi e crearsi una propria identità personale, quasi sempre vestito, per comodità e praticità con anonime tute, che non evidenziano l’identità femminile o maschile, un corpo da nascondere. Dall’altra parte la solitudine dei ragazzi disabili, nel caso di esclusione dal gruppo dei pari, solitamente per limiti fisici, per iperprotezione genitoriale, non corrisponde comunque alla sperimentazione di un’intimità con se stessi, in cui si può ritagliare uno spazio per costruire un pensiero, immaginario, un’esplorazione mentale e corporea propria attraverso la quale conoscersi.
Risulta dunque complicato costruirsi la propria intimità, considerabile come effetto di una anche minima separazione dall’altro, perché questo altro è costantemente presente, non solo mentalmente ma soprattutto anche fisicamente.
Adolescenza e intimità
Paradossalmente è proprio l’adolescenza, in quanto periodo di crisi, cambiamento, che può dare al soggetto con disabilità l’occasione di integrarsi in un’identità che si storicizza, dunque che attiva un tempo e uno spazio che non sono fissi alla ferita, al lutto originario. In questo si richiama la funzione dell’altro sociale a cui egli si rivolge, che molto spesso si incolla all’immagine della famiglia e congela il ragazzo nell’etichetta di immodificabile, quasi che qualcosa della natura e del destino dominasse su qualunque possibilità
soggettiva. Un altro sociale che invece si pone come nuovo riconoscimento, che rinvia un’immagine positiva, potrà essere il primo appoggio, aggancio ad una nuova esperienza di sé, che aiuta il ragazzo nel processo di separazione. Il primo riconoscimento concerne per l’appunto il cambiamento puberale e adolescenziale, presente anche nel soggetto disabile, ma che troppo spesso prende le vie della negazione e del rifiuto. Rifiuto da parte di chi? Spesso l’adolescente disabile è escluso dalle sfide proprie di questo periodo in cui il soggetto si spinge alla ricerca un soddisfacimento al di là dell’autoerotismo e dunque verso l’incontro con il pari e la sessualità. Escluso da chi lo congela e lo affonda nell’infantilismo e nell’impossibilità, controllato e ostacolato nella masturbazione e nella spinta pulsionale, questa non trova canale per orientarsi verso un oggetto esterno alla famiglia, anche immaginario e sublimato e dunque resta una marmaglia indistinta di caos pulsionale che sovrasta il ragazzo. Il fallimento dei tentativi di trovare un nuovo sé nel rapporto con il mondo si colloca sotto lo sguardo triste e rassegnato spesso della madre, alla quale l’adolescente ritorna per soddisfare spinte sessuali inarticolabili, che si trasformano in esperienze incestuose, isolamento e sganciamento dalla realtà. Il soggetto può invece attivare le proprie energie, soprattutto quelle adolescenziali, per mettere in moto il piacere di una nuova identità, e il lutto di quella infantile, nell’integrazione di sé e con gli altri. Il primo passo è riconoscerlo come chi si affaccia ad un periodo nuovo, e dunque anche per lui la possibilità di un movimento, come colui che porta una sessualità che emerge, spesso scomoda da guardare, riconoscere, accogliere, perché più svelata di quella degli altri pari, più immediatamente legata ad una corporeità evidente, non mediata, non regolata. È possibile accogliere la sessualità nell’ottica di un’ esperienza ampia di effusione e contatto con l’altro, innanzitutto fatta di emozioni e sentimenti da esplorare per poter accedere all’intimità in modo integrato e non spezzettato e traumatico, un’esperienza di piacere nell’incontro con l’altro.
Ciò che nel periodo delicato dell’adolescenza può essere di notevole viraggio è spingere il soggetto ad agganciarsi maggiormente alla realtà esterna, alla conoscenza dell’altro, dell’alterità, come ciò che di non conosciuto può scoprire; e attraverso una relazione di fiducia questo viraggio fa resistenza al ritiro in solitudine e al ripiegamento su di sé, e muove invece verso l’apertura.
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