Alcune ricerche (Chandler e Lalonde, 1995) su giovani che hanno tentato il suicidio hanno mostrato come le difficoltà “narrative” di questi adolescenti, nell’interpretare le incongruenze tra sé e gli altri e tra aspetti e momenti diversi di se stessi e della propria storia, siano componenti costanti e, in qualche modo, influenti nel loro disagio. Ci sarebbe quindi una sorta di correlazione tra determinati stili narrativi, o modi di raccontarsi, e un quadro psicopatologico piuttosto grave.
Altre ricerche, sempre su una popolazione adolescenziale (Trzebinski, 1996), hanno evidenziato come alcune caratteristiche delle narrazioni sul Sé possano essere associate alla depressione. In questi studi le differenze principali tra adolescenti depressi e non depressi riguardavano il modo in cui venivano elaborati i piani d’azione nelle narrazioni sul Sé: nei depressi i piani d’azione erano poco articolati o del tutto assenti; le rappresentazioni dei propri problemi e delle strategie per affrontarli erano nel complesso deficitarie. Si è ipotizzato quindi che le persone depresse non sono capaci di interpretare chiaramente gli eventi collegati al Sé, di decidere ed attuare proprie decisioni.
Questo impoverimento degli schemi narrativi sul Sé potrebbe essere messo in relazione con quanto indicato da Feldman, Bruner, Kalmar e Renderer (1997) con il termine “trama”, ovvero una specifica modalità narrativa in cui gli individui raccontano le loro storie senza prevedere vincoli né opportunità, come se tutto fosse determinato soltanto dalla volontà del protagonista: il soggetto pensa e agisce come se operasse nel vuoto sociale e ciò impedisce di prevedere ostacoli, elaborare strategie per fronteggiare i problemi, valutare il peso hanno gli altri nell’elaborazione e nel perseguimento del proprio progetto di vita. Viceversa, narrazioni fatalistiche, in cui il protagonista sembra dominato da circostanze esterne, contraddistinguono chi parla per “complicazione” (Feldman, Bruner, Kalmar e Renderer, 1997).
Quando il contenuto delle narrazioni sul Sé non è congruente con ciò che il compito e l’ambiente sociale richiedono, possono comparire patologie nell’adattamento sociale della persona e nel suo modo di affrontare le difficoltà. Le narrazioni sul Sé possono irrigidirsi, data la loro naturale tendenza a mantenere costante la maniera in cui la persona prende le più importanti decisioni, determinando una chiusura mentale e una scarsa adattabilità al cambiamento che spesso può divenire distruttiva per le persona, soprattutto se le decisioni e il modo di affrontare le difficoltà non sono adeguati all’ambiente (Trzebinski, 1997).
Sentimento di identità e costruzione autobiografica sono dunque intimamente correlati e richiedono un costante sforzo di coordinamento tra la stabilità e il cambiamento, affinché la propria vita non appaia né troppo caotica né troppo scontata.
Gli sviluppi della teoria dell’angoscia di Freud, inizialmente considerata una conseguenza dell’accumulo dell’energia sessuale impedita nella scarica, arrivano a concepire l’angoscia come un segnale di allarme che l’Io attiva in caso di conflittualità inconscia. Proprio questa seconda concezione tratta l’angoscia in termini semiotici, in quanto segnale, ovvero qualcosa che sta per qualcos’altro. Si entra in questo modo nel dominio dei processi di simbolizzazione, caratterizzato da rapporti significante/significato: la rappresentazione soggettiva - l’affetto - costituisce il significante che sta al posto dello stato inconscio significato.
L’ipotesi semiotica è stata successivamente approfondita da molti psicoanalisti, con numerosi contributi che hanno tracciato una visione dell’inconscio come universo di significati, una matrice generativa di processi di semiosi affettiva. Ne è un esempio la teoria coinemica di Fornari (1979, 1983), secondo la quale la simbolizzazione affettiva è una forma di pensiero parallela alla categorizzazione operativa propria del pensiero razionale “diurno”. Mentre la categorizzazione operativa mobilita codici pubblici convenzionali (concetti e categorie linguistiche), la simbolizzazione affettiva tratta gli oggetti della realtà e il linguaggio come significanti, i quali vengono saturati di un significato emozionale generato da un codice affettivo primitivo, il codice costituito dai coinemi: sememi naturali che danno forma psichica all’esperienza, connotandola nei termini delle fondamentali dimensioni vitali (corpo, vita, morte, relazioni parentali).
Il paradigma socio-costruttivista propone che il significato psicologico di ogni atto discorsivo o comportamentale si sostanzia sul piano soggettivo e intersoggettivo in ragione dei modelli simbolici condivisi entro il contesto relazionale, sociale, culturale di appartenenza. È così possibile riconcettualizzare in termini relazionali, semiotici e dialogici la “psicopatologia”, che smette di essere identificata con uno stato, una configurazione di processi cognitivi, affettivi e comportamentali specifici e universalmente definibili, per essere concepita in termini semiotici e processuali come una modalità disfunzionale di interpretazione della realtà, che si riflette sulle possibilità di individui/gruppi/istituzioni di realizzare specifici progetti di sviluppo, entro specifici contesti culturali, sociali e di scopo (Guidi, 2009). In sintesi, potremmo affermare con Di Maria e Lo Verso (1995) che la “psicopatologia” rappresenta un’impasse del pensiero nei confronti di qualcosa non assimilabile e non interpretabile entro le categorie simboliche condivise, e dunque sottratto alle dinamiche trasformative.
Montesarchio e Venuleo in diversi lavori (1998; 2002; 2004) hanno presentato interessanti riflessioni intorno agli stili narrativi che, all’interno della cornice contestuale del colloquio psicologico, possono offrire un particolare punto di vista da cui osservare la disponibilità del cliente a farsi carico della propria storia.
Stile narrativo Caratteristiche
Annales Il narratore riporta fatti che suppone abbiano significato in sé; i fatti si accumulano senza rapporti di dipendenza e/o finalità; manca la soggettivazione
Cronaca Il criterio di causalità è appena suggerito, ma è un criterio dato, non approfondito; anche qui il processo di soggettivazione è deficitario
Storia I fatti sono incorniciati in un divenire dialettico che fa intravedere obiettivi e sviluppi futuri
Chi è in grado di sviluppare narrazioni su di sé che si avvicinano alle forme narrative del dramma e della storia, è anche in grado di imputare a se stesso le scelte fatte, successi o errori che siano. Il soggetto quindi si percepisce come elemento attivo, come attore nella situazione. Al contrario, quando la storia viene presentata in termini di annales/trama o cronaca/complicazione, il soggetto imputa fondamentalmente alle circostanze esterne o a disposizioni innate quello che accade nella sua vita. Manca quindi la possibilità di vedere alternative e le capacità narrative si limitano ad utilizzare i soliti percorsi obbligati, di fronte ai quali non sembra possibile far altro che adattarsi.
In questo senso quindi è importante riconoscere al colloquio psicologico la funzione di facilitare la costruzione di una narrazione sul sé e sulla propria storia, tale che si possa parlare di sé e del proprio problema in prima persona e non in terza (Venuleo, 2004). Tutto questo si può realizzare proponendo al cliente uno spazio per pensare alle emozioni che agisce tramite la sua stessa domanda, in cui sarà possibile precisare la trama che sostiene la sua storia, senza per questo cercare di contrapporre alla sua versione la nostra, semplicemente (si fa per dire) instaurando un sano processo di negoziazione dei significati che emergono dal suo racconto.
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