Psicoterapia attraverso i genitori

PSICOTERAPIA DEGLI ADOLESCENTI ATTRAVERSO I GENITORI 

FRANCO FERRI - Psicologo Psicoterapeuta – PSIBA Milano

F. e G. sono i genitori non ancora quarantenni di un ragazzino che frequenta la Prima Media e che chiamerò Lucio: sono venuti da me qualche tempo fa per una consulenza sul figlio “…che non riconoscevano più”, preoccupati per il suo comportamento allarmante messo in atto nell’ambiente familiare.

Sono genitori apparentemente ben assortiti e ben affiatati, titolari dello studio dove esercitano entrambi la stessa professione. Forse lei è quella più in crisi perché l’imprevedibilità del figlio non trova una collocazione nella sua convinzione di essere una madre efficiente e minaccia anche l’immagine sociale della famiglia, cui pare tenga moltissimo. Il padre è più portatore di una preoccupazione empatica nei confronti di Lucio in quanto lo vede in difficoltà con sé stesso ed esposto a ossessioni comportamentali.

Questi genitori si erano presentati come assolutamente consapevoli delle turbolenze adolescenziali; ne sapevano quasi più di me, direi, perché si erano documentati sui sacri testi dell’adolescenza. Vedendosi mettere clamorosamente in discussione nei loro progetti educativi dal figlio si erano trovati a fare i conti con la sensazione di una considerevole impreparazione, a cui pensavano di far fronte chiedendo consigli sul modo migliore di farvi fronte.

Nella stanza di psicoterapia si incontrano continuamente genitori spiazzati dalle modificazioni caratteriali e comportamentali dei loro figli che crescono, cambiamenti spesso letti con inquietudine ansiosa se non con angoscia.

Così erano venuti da me, pensando di poter placare le loro ansie adottando qualche nuova strategia educativa.

E’ stata la madre ad alzare la cornetta del telefono per chiedere l’appuntamento con lo specialista.

Fin dalle prime battute, quando è stato chiaro che la mia competenza non era educativa ma psicoterapeutica, si è posto con lei un problema particolare: quello della definizione di un setting di consultazione dove fosse salvaguardata la riservatezza di uno spazio per Lucio: nella mia mente prima o poi avrei pur dovuto vederlo.

Un passaggio nel primo incontro con loro era stato emblematico. La semplice domanda “Mi state chiedendo se voglio vedere vostro figlio? Perché avrei bisogno di vederlo per potermi fare un’idea delle sue difficoltà…” aveva fatto precipitare questa madre nel panico. A quel punto è parso chiaro anche l’eccesso del suo coinvolgimento emotivo, che poco aveva a che fare con le aspettative pedagogico-educative. La proposta di portare il figlio dallo psicologo aveva ferito il suo orgoglio di mamma perfetta modificandone gli orizzonti. E’ stata l’idea della valutazione di Lucio da parte mia ad essere letta come una diagnosi perturbante?

Mi è venuto in soccorso il padre contenendo in un qualche modo le ansie materne, dicendosi disposto a tenere in sospeso per il momento la valutazione diagnostica di Lucio. In entrambi i genitori appariva predominante un’aspettativa di controllo e contenimento del figlio, senza nessun riconoscimento per i suoi bisogni di fare da sé un suo lavoro segreto per la crescita (il bisogno degli adolescenti di “non essere capiti” dagli adulti). (1)

Mi riferiscono dunque nel primo incontro, della crescita esponenziale degli atteggiamenti oppositivi del figlio nei confronti di qualsiasi forma di disciplina anche minimale: si rincorrono l’un l’altro nel descrivere i suoi atteggiamenti assolutamente infantili e regressivi, di disorganizzazione del tempo di studio, della sua propensione al ritiro nella sua stanza, di provocazioni sorprendenti portate all’eccesso e dell’uso compulsivo della play station. Era proprio la play station il luogo del braccio di ferro di Lucio col padre: più quest’ultimo  tormentava il figlio con inviti a frequentare di più altri compagni, più il figlio si rinchiudeva nella sua stanza davanti al video; più il padre gli limitava il tempo dei videogiochi, più il figlio vandalizzava la camera del padre; più il padre si inquietava per la salute mentale del figlio esposta alla dipendenza da  videogiochi, più il figlio escogitava soluzioni bizzarre per costringere il padre a perdere tempo (anche tempo di lavoro) dietro ai suoi capricci.

L’età di mezzo potrebbe essere il posto per la fascinazione e la rerca di appartenenza a un gruppo di coetanei. Non è rarissimo che tale ricerca si indirizzi verso il tentativo di identificazione in bande trasgressive. Oppure, sul versante opposto, si assiste al ripiegamento in una dimensione di ritiro solitario dell’adolescente dal vago sapore di una sconfitta. Le “chiusure” degli adolescenti oggi sono in un qualche modo facilitate e mimetizzate dall’uso compulsivo del computer, a cui i genitori guardano con disagio perché ai loro occhi appare spesso incomprensibile, e, non trovando spiegazioni alla loro portata, non sanno leggervi alcun significato tranquillizzante. Lucio tra le due opzioni sembrava proprio aver scelto la seconda, perché i genitori, pur preoccupati per le scarse relazioni sociali del figlio, hanno assolutamente circoscritto la sua provocatorietà all’ambito familiare. Di solito è la scuola, ma non è sempre così, a rilevare nell’allievo segnali più o meno preoccupanti o qualche anomalia comportamentale di cui i genitori sono all’oscuro: non era appunto il caso di Lucio, percepito dagli insegnanti come adeguato verso le richieste scolastiche e nel comportamento coi compagni. Di fatto, questi genitori non avevano trovato nella scuola un alleato per chiarire, ridimensionare o risolvere rapidamente il problema del “loro” conflitto col figlio.

E’ vero: in queste fasi evolutive possono ripresentarsi anche alcuni assetti emotivi e comportamentali infantili che stonano più o meno clamorosamente con la percezione degli adulti: si tratta di “sistemazioni” relazionali insoddisfacenti rimaste in sospeso durante l’età della latenza. Tali precarie sistemazioni vengono rimesse in gioco dal nostro adolescente, con la speranza inconsapevole di un aiuto dall’ambiente per ottenerne un assestamento più adeguato (“… voglio vedere che effetto che fa!”).

Ecco, questo, che potremmo chiamare gioco adolescenziale, proprio non trovava posto nella mente di questi genitori. La loro domanda implicita ed esplicita era “Cosa dobbiamo fare?”.

Sulla base della loro descrizione portata a me, pur senza vedere Lucio, si sarebbe potuto facilmente ipotizzare un D.O.P. (Disturbo Oppositivo Provocatorio), ma una tale diagnosi poco ci avrebbe detto sull’origine di questa crisi evolutiva difficile da decifrare, e ancor meno sulla sua prognosi, comunque problematica in ogni caso, prendendo per buono livello di ansia esibito da questi genitori. Il loro racconto evidenziava come il giovane adolescente non fosse tanto consapevole del suo disagio o di quello portato nell’ambiente familiare: veniva descritto come assolutamente non collaborante e propenso a remare contro le iniziative dei suoi genitori boicottando ogni loro premura.

Il rischio concreto nella strategia e nella tattica di questi genitori, evidenziato fin dal primo colloquio, era quello di andare a impantanarsi sempre più in una palude vischiosa fatta di bracci di ferro col figlio, attese interminabili, esplosioni improvvise di disagio e insofferenza, tregue armate e calme piatte cariche di tensioni e recriminazioni.

Nei casi fortunati, quando questi adolescenti vengono da noi, quando si riesce a costruire con loro una qualche forma di alleanza di lavoro, la situazione migliora in forme anche sorprendenti dall’apparenza un po’magica o un po’ misteriosa. Non c’è però nessun mistero da spiegare quando diventa chiaro il bisogno del piccolo paziente di “fare da solo”: basta rispettare questo bisogno e rimandarglielo, sapendo che tutta la sua segreta sperimentazione ha a che fare col suo desiderio di crescere a modo suo e coi tempi suoi.

Nei casi difficili, e Lucio era un caso difficile per il livello di esasperazione e per la sua oppositività alle premure dei genitori, occorre diventare creativi, cercando strade alternative di aiuto per preparare il terreno a qualche cambiamento di posizioni emotive irrigidite, in attesa di tempi migliori.

In questo caso mi è sembrato utile dare la disponibilità all’ascolto di questi genitori: anche loro si trovavano in difficoltà nel dare un senso al loro disagio causato da un figlio diventato da qualche tempo “irriconoscibile” o sfuggente.

Di solito non è tempo perso: ci sono tante cose su cui lavorare coi genitori quando prevale la confusione delle reciproche aspettative genitori-figlio sulla comprensione dei fatti. In seduta coi genitori poi, la “presenza del figlio” nonostante la sua assenza è una realtà fattuale e rende significativo il lavoro con loro, per loro e, di riflesso, anche per lui.

Con F. e G. la presenza manifesta di Lucio in seduta è sempre stata palpabile, sia sotto il profilo fantasmatico (di lui si parlava, non di altro) che realistico (per esempio ritardi dei genitori agli appuntamenti causati dai capricci e dalla oppositività del figlio).

Questi due genitori molto sensibili hanno affrontato di petto, con coraggio quella che potremmo chiamare crisi dell’idealizzazione del loro ruolo provocata dal figlio dodicenne, apparentemente ingovernabile. La domanda era: “La nostra posizione educativa, nella quale abbiamo da sempre creduto e che abbiamo sempre cercato di fare al meglio, come mai non funziona?”

Sono arrivati da soli, e direi anche abbastanza rapidamente, a constatare come l’assetto educativo, congeniale al loro modo di essere, non bastava perché in un qualche modo manchevole di un elemento importante. L’idea centrale relativa al loro compito genitoriale si configurava come quella di due genitori che si impegnano a sollecitare la crescita, accompagnare, indirizzare ed eventualmente raddrizzare una piantina esposta al rischio di prendere una piega storta. Idea che entrava direttamente in conflitto con le spinte vitali autonome del figlio verso l’indipendenza e i suoi bisogni di sperimentazione, spinte e bisogni da riconoscere, rispettare e apprezzare come parte integrante del suo percorso di individuazione e separazione.

Cammin facendo, in maniera non sempre lineare, questi genitori hanno riconosciuto nella loro preoccupazione per Lucio un eccesso di condizionamento delle cosiddette convenienze sociali del loro ambiente di vita e professionale (“Cosa mai penserà la gente?”). Ha pesato anche una sorta di ricerca troppo ossessiva di rassicurazioni circa le turbolenze del figlio (“Se è così adesso, cosa combinerà a 15 anni?”), lette pregiudizialmente più come “prognosi infausta” che come inquietudini adolescenziali relativamente normali

Questa apprensione esagerata li aveva limitati obbligandoli a studiare risposte pratiche e poco empatiche per il suo contenimento.

E non si può neanche escludere un qualche effetto negativo di questa ansia genitoriale sul figlio, “contagiato” dalle loro preoccupazioni o inettitudini nella comprensione delle sue difficoltà evolutive.

L’ansia li aveva anche ostacolati nella lettura dei comportamenti del figlio, percepiti unicamente come agiti provocatori nei quali era completamente assente la mediazione di un pensiero.

Quando non c’è pensiero c’è solo la messa in atto di una reazione meccanica a qualcosa di frustrante impossibilitato ad accedere alla coscienza.

Forse, una cosa che i genitori possono proficuamente fare per i figli è cercare di dare corpo e dare voce ad un pensiero che non c’è, mettere un pensiero e una voce là dove sembra agire solo l’impulso o la reazione, senza lasciarsi invadere dall’ansia di aspettative risolutive o magiche trasformazioni.

Non è una cosa facile. Occorre accedere a quanto si è imparato dalle proprie esperienze e riandare per quelle strade disagevoli e non lineari da tutti percorse alla ricerca di quanto poteva aiutarci a crescere quando eravamo ancora ignari del mondo esterno.

A suo tempo, siamo stati tutti adolescenti… anche se oggi magari non torneremmo più indietro.

F. e G. purtroppo, incontravano una certa difficoltà nell’attingere ai ricordi della loro adolescenza e non la percepivano come magazzino di esperienze utili per dare un senso e un significato alle indisciplinatezze di Lucio. Il loro problema sembrava riconducibile non tanto alla lontananza nel tempo della loro gioventù, quanto piuttosto alla loro accentuata propensione ad allontanare o dimenticare le vicissitudini di quel periodo. Per qualche motivo, le loro turbolenze adolescenziali, probabilmente colorate da un indistinto malessere e permeate di insoddisfazione, erano state relegate in un luogo nascosto della mente e lasciate in silenzio a decantare.

Forse risultavano troppo penose alla loro coscienza di genitori responsabili. Come si fa a non capirli: si diventa adulti anche per sfuggire alla angosciosa indeterminatezza adolescenziale. Questi, come molti altri genitori, facevano fatica a tollerare l’elusività del figlio, la sua sfuggevolezza, le sue aree di segreto e di silenzio: in esse verosimilmente riecheggiava qualche loro difficoltà adolescenziale non risolta o non elaborata.

Ritornando alla questione iniziale posta da F. e G., e cioè il fallimento della loro modalità educativa, essa aveva una risposta piuttosto evidente ma non accettata a livello cosciente: Lucio non poteva essere plasmato conformemente ai loro desideri e neppure secondo le aspettative sociali, semplicemente perché impegnato nella sperimentazione segreta di sé e dei suoi nuovi investimenti affettivi in preparazione del suo prossimo divenire un giovane adulto. Simultaneamente, rimaneva muta ai genitori l’ambivalenza dei suoi sforzi, confusamente mimetizzati nei comportamenti provocatori ma anche affogati nella nostalgia non risolta relativa a quegli affetti già conosciuti e goduti nell’infanzia, il sentirsi figlio beato di “quei” genitori, tanto premurosi con lui quando rappresentava per loro il piccolo principe di casa.

Proviamo a descriverla così: la ricerca del suo “Vero Sé” portata avanti da Lucio consisteva in un vero e proprio “lavoro” interiore del quale i genitori non avevano colto la portata, nonostante la loro recente adolescenza! Forse turbati dal configurarsi preconscio di quel lavoro, solo agli inizi ma già chiaramente delineato, come processo di emancipazione dalle loro aspettative.

E’ apparso chiaro a quel punto quanto le aree esperienziali non adeguatamente risolte nella loro adolescenza, abbiano fatto entrare in risonanza questi genitori con le esigenze sperimentali di Lucio, aggiungendo confusione a confusione. Il figlio non veniva visto come persona separata da loro ma intriso delle proiezioni dei loro vissuti su di lui.

L’importante lavoro svolto nella stanza della terapia è consistito nel dipanare quelle parti indistinte del mondo interno dei genitori stessi (fantasie ed aspetti emozionali) entrate in gioco con la ricchezza delle suggestioni fornite dal disagio manifesto del figlio. L’accoglimento amorevole della sua “presenza” emotiva nelle nostre riflessioni ha permesso di focalizzare un obiettivo ben delimitato: ammortizzare l’impatto realistico dei reciproci atteggiamenti conflittuali nella quotidianità familiare e accendere l’interesse per l’ascolto empatico dei reciproci vissuti fantasmatici.

Non è stato semplice: questi genitori preoccupati per il disagio del figlio, erano arrabbiati per le sue continue incomprensibili sfide, erano alle prese col sentimento di un tradimento per il loro impegno e col vissuto di un danneggiamento della loro immagine di genitori premurosi. Accompagnarli verso una più congrua posizione di ascolto e sostegno dei bisogni più profondi del figlio, ha richiesto parecchio impegno. Il risultato non era scontato.

In conclusione, nel lavoro con F. e G. è capitato di trovare ad un estremo atteggiamenti di interferenza ed intrusività proprio in quelle aree che Lucio sentiva come le più vulnerabili, ma è capitato anche di trovare forme eccessive di riguardo e riservatezza dei genitori spinte fino a un limite letto dal figlio come indifferenza.

Nel nostro percorso abbiamo visto come l’accomodamento di quest’ultimo al contesto relazionale familiare si sia espresso in un conflitto più o meno intenso col rifiuto insofferente per le attenzioni genitoriali (“Mi trattano da bambino!”) e la critica feroce per la loro distanza emotiva (“Pensano solo a loro e non mi badano neanche, non hanno alcun interesse per me: io so cosa farei al loro posto!”). F. e G. però hanno anche dimostrato come l’accettare nella loro mente la presenza di un figlio “dotato di autonomia e capacità” separate dalle loro aspettative, abbia permesso di rendere più gestibile per loro e per Lucio l’impatto potenzialmente pericoloso sulla realtà quotidiana delle reciproche proiezioni e dei reciproci vissuti fantasmatici.

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(1)  Per contro, dopo qualche seduta, la mamma è scivolata inesorabilmente sul versante opposto: constatata la sua inadeguatezza dopo l’ennesimo capriccio (più una provocazione che un capriccio, direi) nei giorni successivi, ha cominciato a vedere in me il meccanico che avrebbe dovuto “mettere a posto” il figlio. Dapprima magicamente, a distanza, poi cercando di portare il figlio in “officina” da me, senza riuscirci, e infine pregandomi di fare una sorta di “soccorso stradale” andando a prelevarlo a scuola. Vi lascio immaginare con quale angoscia ha dovuto fare i conti questa mamma davanti all’idea di un figlio da “riparare” appunto, perché “rotto”.

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