Oggi ho deciso di affrontare il tema dell’autismo, sia dal punto di vista strettamente clinico che, soprattutto, dal punto di vista del tipo di lavoro che si può fare per migliorare la qualità della vita di queste persone e delle loro famiglie.
L’etimologia della parola autismo deriva dal greco αὐτός, letteralmente “se stesso”. Il primo richiamo del termine è chiaramente alle difficoltà relazionali e comunicative che, a diversi livelli, caratterizzano i disturbi dello spettro autistico. Kanner ha adottato il termine “autismo infantile” per identificare una sindrome che ha osservato in un campione ridotto di bambini, accomunati tutti da alcuni particolari sintomi: si trattava di bambini inclini all’isolamento, poco partecipi nelle relazioni, alcuni con un linguaggio estremamente povero o caratterizzato da ripetizioni (ecolalia), altri addirittura non verbali. Parte di questi bambini aveva una forte rigidità ad ogni piccolo cambiamento ambientale, che provocava reazioni abnormi di ansia, altri avevano abilità molto sviluppate ma in maniera settoriale, mentre in quasi tutte le altre aree si evidenziava un significativo ritardo dello sviluppo.
Negli anni sono state proposte moltissime teorie sull’origine dell’autismo, condannando intere generazioni di genitori all’etichetta di “cattivo genitore”, in primis le cosiddette “mamme frigorifero”, cioè madri accusate di essere troppo distanti e fredde nei confronti del figlio, ragion per cui quest’ultimo si ammalava di autismo. Rimland, direttore dell’Autism Research di San Diego è stato il primo a sostenere con fermezza che le cause dell’autismo non vanno ricercate nei genitori, ma nella biologia.
Il DSM (Manuale Statistico Disturbi Mentali) elenca in maniera dettagliata i criteri per una diagnosi di autismo, tra i quali troviamo un deficit della comunicazione sociale e nell’interazione sociale, comportamenti e/o interessi ed attività ristrette e ripetitive (stereotipie, rigidità al cambiamento), aspetti non spiegabili alla luce di un ritardo mentale o di altri ritardi dello sviluppo. I sintomi emergono nella prima infanzia, anche se possono conclamarsi quando il bambino è più grande e compromettono il funzionamento globale dell’individuo.
Le cause precise dell’autismo sono sconosciute, è stata esclusa la responsabilità dei genitori ma non si è trovato il fattore scatenante. Tra i vari studiosi che si sono occupati di autismo c’è accordo nel parlare di multifattorialità, ovvero sia aspetti genetici, che aspetti legati all’interazione tra geni e fattori ambientali, che altre variabili di ordine biologico. Dal punto di vista della genetica sono numerose le evidenze scientifiche di mutazioni di alcuni geni, tuttavia non sufficienti a spiegare l’autismo in quanto anche persone non affette da tale sindrome presentano mutazioni simili e anche diversi soggetti autistici hanno mutazioni diverse.
L’ipotesi dunque è che il maggior fattore di rischio per l’autismo sia poligenetico, cioè il risultato di una combinazione di piccoli effetti prodotti da migliaia di differenze e mutazioni genetiche. Queste differenze genetiche si riscontrano anche nella popolazione tipica (non autistica), determinando un continuum di tratti comportamentali e di sviluppo che solo nella loro manifestazione più severa possono essere ricondotti a sintomi tipici dell’autismo. Dunque l’interazione tra geni e ambiente sembra giocare un ruolo rilevante nel disturbo dello spettro autistico: la vulnerabilità individuale in seguito a mutazioni genetiche può concorrere all’insorgenza dei disturbi dello spettro autistico.
Si parla di Disturbi dello Spettro Autistico perché in questa grande categoria sono comprese moltissime sottocategorie, come la Sindrome di Asperger, il Disturbo disintegrativo dell’Infanzia, il disturbo autistico.
Non mi soffermerò su ognuna di queste categorie perché, come ho scritto prima, ogni persona con autismo è un mondo a sé.
Lavoro con i bambini e ragazzi autistici da qualche anno, nell’ultimo anno in maniera molto più intensa e continuativa e non mi è mai capitato di incontrare un ragazzo autistico uguale all’altro. Dietro la stessa diagnosi ci sono mondi completamente diversi, mondi che sono solo più difficili da comprendere, ma non per questo meno valevoli di riconoscimento e dignità. La persona autistica ha un modo estremamente particolare di guardare il mondo: la maggior parte di noi si focalizza sulla realtà nel suo aspetto globale, cerchiamo di cogliere il senso generale a discapito dei piccoli particolari che magari non reputiamo interessanti e necessari. Nel mondo autistico invece il particolare assume una rilevanza centrale, si perde di vista la globalità del mondo per osservarlo in maniera molto ravvicinata, perdendo, o meglio, stravolgendo il senso globale. La ripetitività è fonte di rassicurazione e ogni cambiamento della routine, conosciuta e foriera di certezze, genera una forte ansia, tanto che a volte sfocia nell’aggressività.
Il linguaggio non è sempre quello verbale, condiviso e compreso da tutti. Ma sempre linguaggio è, che sia del corpo, attraverso le immagini o attraverso i suoni con le loro mille sfumature. I ragazzi autistici comunicano eccome, anche quelli chiusi in un serrato mutismo. Si tratta “solo” di imparare tante lingue quanti i ragazzi si hanno davanti, dal momento che ognuno ha la sua. Ma è cosi bello essere poliglotti…
Ho citato prima l’aggressività: spesso c’è l’immagine del ragazzo autistico come un gigante che spesso diventa violento e difficile da contenere. L’aggressività spesso è il maggior problema che le famiglie si trovano ad affrontare, scatti di rabbia e mani alzate, accompagnate da urla e lanci di oggetti. Mi piace pensare all’adulto autistico come ad un neonato che non riesce a far comprendere quale bisogno ha e quindi piange disperato, in attesa che la mamma comprenda quale sia la sua necessità e la risolva. Il ragazzo autistico spesso non ha gli strumenti per esprimere il suo bisogno e, non sentendolo accolto e soddisfatto, diventa frustrato, quindi violento. Ma, per come io vivo l’autismo, è possibile insegnare a questi ragazzi a trovare un modo alternativo alla violenza: comunicare quello che vogliono, aiutarli ad esprimersi, con l’uso di immagini, con il corpo, con i gesti. In tal modo la frustrazione per la non comprensione non arriva all’apice che la fa sfociare nella violenza. Un aspetto che io reputo fondamentale è l’autonomia: questi ragazzi hanno il diritto di imparare ad essere autonomi, non sempre dipendenti dai genitori o da un operatore, sono persone che attraversano tutte le fasi di vita “normali”, magari solo con tempi diversi. Aiutare queste persone ad avere una propria autonomia, ad avere degli spazi di vita adulta ed individuata è uno strumento preziosissimo per la loro crescita personale e per le famiglie, che sentono una forte angoscia nel pensare al “dopo”.
Per la mia personale visione del mondo l’idea del disabile come persona che va assistita 24 ore su 24, che non può far nulla da solo e che deve stare chiusa in strutture apposite è superata: il grosso del lavoro che va fatto è quello di insegnare a questi bambini, un giorno adulti, a far parte della società; l’apprendimento delle regole di convivenza non è automatico come succede ai bambini tipici, ci sono dei tempi più lunghi e una difficoltà nel comprendere le richieste del contesto. Per questo è fondamentale uscire, far vivere a queste persone la normalità, dall’andare a fare la spesa al bar.
Di seguito tre video realizzati da TeleVicenza presso la Cooperativa Agorà con i ragazzi di Casa Gialla, Centro Diurno per ragazzi con diagnosi di autismo di cui sono coordinatrice. Credo che dalle immagini possa essere compreso meglio quello che ho scritto fino ad ora.
https://m.youtube.com/watch?t=82s&v=ZUIwtjjYBv8
https://m.youtube.com/watch?v=bI_tC-UWJDQ
http://tvavicenza.gruppovideomedia.it/it/on-demand/cultura/mosaico?keySel=2017-11-09_mosaico09112017_la_farfalla_2017
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