Alcuni studi sugli stili con cui i genitori conversano col bambino sul passato e lo aiutano a ricordare (Smorti, 1997) prendono le mosse dall’ipotesi che esista un “sistema sociale di memoria” sul quale si costruiscono memorie e rappresentazioni di sé essenziali per lo sviluppo psicologico. Secondo tale ipotesi quindi la costruzione dell'esperienza passata sotto forma di narrazione avviene dunque in maniera relazionale e sociale.
Genitori e bambini cominciano a parlare delle esperienze passate all’incirca quando i figli hanno 18-20 mesi. Inizialmente i genitori forniscono la maggior parte dei contenuti alle conversazioni, in attesa che i bambini diventino sempre più capaci di partecipare e arrivino (intorno ai 3 anni) a proporre da soli tali argomenti come oggetto di conversazione. I bambini imparerebbero dunque a padroneggiare le forme e le funzioni del racconto sul passato attraverso le prime conversazioni guidate dall’adulto.
In linea con quanto sostenuto da Vygotskij (1978) circa lo sviluppo delle capacità cognitive a livello interpersonale, adulti e bambini si impegnano congiuntamente in un compito che questi ultimi non sono in grado di svolgere da soli. Attraverso questi racconti sul passato, il genitore mostra al figlio i modi in cui le esperienze già vissute possono essere condivise attraverso il discorso e il bambino apprende come comunicare agli altri le proprie esperienze.
Se tale ipotesi è corretta, allora le modalità con cui i genitori strutturano queste conversazioni con i figli dovrebbero riflettersi sulla capacità di questi ultimi di raccontare i propri ricordi. Le ricerche in questo ambito (Engel, 1986; Hudson, 1990; McCabe e Peterson, 1991) hanno messo in evidenza due distinti stili materni di parlare del passato: lo stile altamente elaborativo e quello scarsamente elaborativo. Le madri con uno stile altamente elaborativo parlano del passato in modo dettagliato, fornendo ad ogni turno di conversazione informazioni sempre più interessanti, e sembrano valutare l’attività del ricordare come un modo per interagire col bambino, al fine di sollecitare nei propri figli l’interesse nella produzione di storie condivise.
Viceversa, uno stile scarsamente elaborativo caratterizza le madri che incoraggiano i bambini a ricordare ripetendo sempre le stesse domande e fornendo suggerimenti privi di contenuto. Il loro interesse sembrerebbe maggiormente volto ad ottenere risposte corrette, trasformando le conversazioni sui ricordi in un test che serve a verificare le capacità mnestiche del bambino: vengono fatte al bambino sempre le stesse richieste nello sforzo di ottenere un contributo circa un episodio specifico.
Ulteriori ricerche in questo ambito (Reese, Haden, Fivush, 1997) hanno inoltre messo in evidenza anche significative differenze di genere negli stili narrativi che contraddistinguono queste conversazioni sul passato: le conversazioni con le figlie femmine sembrano essere più curate e più impegnate di quelle con i figli maschi; le femmine ricordano più episodi della prima infanzia di quanto non facciano i maschi, li ricordano a partire da un’età più precoce e i loro racconti sono inoltre più lunghi e ricchi di dettagli. Questi risultati fanno ipotizzare che femmine e maschi vengano socializzati a parlare e a pensare al proprio passato in modo diverso; a queste differenze corrisponderebbero quindi analoghe differenze nel ricordo autobiografico da adulti.
Il modo in cui costruiamo le nostre storie, le nostre autobiografie, può essere molto diverso, a seconda del tipo di interazioni conversazionali con cui ci siamo confrontati durante il nostro sviluppo. Per di più, questi modelli possono emergere molto precocemente nello sviluppo e questo può avere conseguenze durevoli sul modo in cui noi comprendiamo la nostra vita e noi stessi.
Le narrazioni sul Sé, costruite come abbiamo visto sulla base di un determinato scambio narrativo con i genitori, forniscono all’individuo uno strumento essenziale per interpretare i dati più importanti della sua realtà. Gli Schemi narrativi sul Sé costituiscono quindi la cornice all’interno della quale le esperienze passate acquistano significato.
Il loro ruolo sarebbe altrettanto determinante nel dirigere le aspettative dei soggetti, predeterminandone in questo modo le azioni. Questo concetto si richiama a numerosi altri costrutti, come alla nozione di “storia sul Sé” (McAdams, 1985), ai “copioni personali” di Berne (1976), al concetto di “stile di vita” di Adler (1927). Nell’insieme, tutte queste concettualizzazioni sottolineano l’esistenza di sistemi generali di conoscenza sul Sé che regolano la comprensione degli avvenimenti più importanti per la persona, interpretandoli come componenti di storie sul Sé.
Quando il contenuto delle narrazioni sul Sé non è sufficientemente sviluppato, elastico e congruente con ciò che il compito e l’ambiente sociale richiedono, possono comparire patologie nell’adattamento sociale della persona e nel suo modo di affrontare le difficoltà. Le narrazioni sul Sé possono irrigidirsi, data la loro naturale tendenza a mantenere costante la maniera in cui la persona prende le più importanti decisioni, determinando una chiusura mentale e una scarsa adattabilità al cambiamento che spesso può divenire distruttiva per le persona, soprattutto se le decisioni e il modo di affrontare le difficoltà non sono adeguati all’ambiente.
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