Quando nasce nostro figlio ha uno zainetto sulle spalle colmo di aspettative, fantasie, sogni, che provengono dalla famiglia che lo accoglierà.
Lui d'altro canto non sarà una tabula rasa come si credeva un tempo ma sarà caratterizzato da alcuni aspetti caratteriali peculiari che appartengono al suo patrimonio genetico.
Le primissime esperienze, interazioni con i genitori e i familiari andranno ad arricchire e in parte modificare il suo zainetto. Anche i genitori dovranno fare i conti con il vero bambino ma talvolta la maggior capacità di determinare l'altro appartenente ad un adulto potrà far si che il piccolo debba portare con se anche aspetti che appartengono più alle aspettative del genitore che alla sua indole.
Un neonato vive le sue prime esperienze in termini corporei. Non saprà esprimere le sue emozioni, anzi non le saprà neanche riconoscere, non saprà interpretare e contattare i suoi bisogni e non avrà alcuno strumento per soddisfarli. Egli saprà solo esprimere attraverso il pianto le sue sensazioni vaghe e incomprensibili. Sarà compito della mamma (o del caregiver) accogliere, tenere insieme, interpretare e soddisfare i suoi bisogni. Il piccolo, in assenza di questo vivrebbe un'esperienza di disintegrazione, di sopraffazione.
La madre potrà accoglierlo tra le braccia, rassicurarlo con la voce (i neonati sono sensibili ai toni vocali femminili), comprendere ed elaborare al suo posto le sue sensazioni e tradurle in bisogni da soddisfare. Sembra così complicato da fare ma, in realtà, una madre "sufficientemente buona" (come diceva Winnicott) lo fa istintivamente.
Per questo è essenziale che il bambino possa trovare un ambiente familiare sereno, stimolante e non depresso.
Il ruolo dei genitori in questa fase è più importante ed attivo di quanto si pensi anche se sembra di doversi prendere cura solo dei bisogni fisiologici del neonato, in realtà in questa fase verranno poste le base per il suo senso di sicurezza, di fiducia nell'altro e in se stesso: qui lui creerà il suo spazio nel mondo, il suo diritto di esistere.
Quando il bambino è più grandicello il compito dei genitori scivola inevitabilmente anche sul versante educativo.
Educare un figlio non significa costringerlo a fare come noi genitori desideriamo. Lo stesso termine "educare" deriva dal latino "e" (fuori) "duco" (condurre) e significa letteralmente guidare fuori, affinare, sviluppare. Da questo si adduce facilmente come l'etimologia della stessa parola sia molto distante del senso comune di "educare" inteso più in termini di imposizione di regole, di comportamenti controllati.
Un bambino educato non necessariamente è un bambino posato che resta sempre fermo e dice grazie; secondo l'origine del concetto di educazione il bambino educato è un bambino in grado di comportarsi in modo adeguato alla situazione senza rinunciare ad esprimersi e a mostrare se stesso. Giovanni Bollea (2004), in "Le madri non sbagliano mai", afferma: “Educare – non lo diremo mai abbastanza – deriva da educere, cioè guidare senza soffocare: affetto e rimprovero, insomma, hanno uguale importanza”.
I nostri figli hanno bisogno di sperimentare, provare, sbagliare, imparare. Il compito dei genitori è quello di sostenere il bambino nella sua esplorazione del mondo, delle regole sociali. Sostituirsi ad esso per evitargli frustrazioni o errori lo rende solo meno preparato ad affrontare il mondo.
Il genitore deve essere presente senza sostituirsi al figlio, proteggerlo permettendogli di sperimentare, spiegandogli perchè alcune cose sono pericolose senza allontanarlo bruscamente. Le regole vanno poste e non imposte. Il bambino è in grado di capire già da molto piccolo che alcune cose non si possono fare. Ovviamente le regole per un bambino piccolo non potranno essere troppe altrimenti si blocca la sua curiosità e la sua creatività: componenti essenziali per un sano e completo sviluppo psicologico; si possono porre 4 o 5 regole ben chiare.
Con il banbino più grandicello (oltre i 5 o 6 anni) le regole hanno non solo la funzione di preservare la loro incolumità ma permettono loro di confrontarsi con i propri confini. Se il bambimo può sempre fare quello che desiderà sentirà la sua energia traboccare a tal punto da invadere l'ambiente. La regola ha per il bambino la stessa funzione che l'abbraccio della madre ha per il neonato: contiene la sua energia senza bloccarla ma canalizzandola in un contesto strutturato. E' come una staccionata a maglia larga (non un muro) che delimita e contemporaneamente mette a contatto con l'esterno.
A volte dire di no ai nostri figli, non soddisfare ogni loro richiesta, sgridarli o porre loro delle regole ci fa sentire cattivi. Questo vissuto ha a che fare con il nostro egoismo, con la nostra paura di perdere il loro amore, con il nostro timore di sbagliare. Ma è nostro compito e responsabilità offrire ai figli gli strumenti per affrontare il mondo quando saranno più grandi (età scolare) o adulti. La società non dirà loro sempre di si, non porterà solo gratificazioni ma anche frustrazioni, non permetterà loro di fare sempre ciò che desiderano ma porrà delle regole.
Educare i nostri figli significa accompagnarli per mano in quel cammino ricco di avventure che è la loro crescita, permettere loro di sbocciare rivelandosi per quel che sono, sentendosi visti, accolti, accettati. I nostri bambini potranno sentire di esprimersi se sentiranno di non essere vulnerabili, fragili.
Per sentire di avere dei confini solidi che lo delimitano dal mondo esterno e che contemporaneamente lo mettono in contatto con esso, il bambino deve aver sperimentato il dentro e il fuori, il giusto e lo sbagliato, la gratificazione e la frustrazione.
Le regole permettono al bambino di confrontarsi con l'ambiente senza sentire di invaderlo o di distruggerlo e contemporaneamente sono garanzia del fatto che anche lui sarà rispettato.
"Dicendo no, fissando dei limiti, gli forniamo un modello che lo aiuterà a cavarsela quando si sente sopraffatto; sarà sicuro del suo posto in famiglia e comincerà a sviluppare le proprie risorse" (A. Phillips, 2005 "I no che aiutano a crescere")
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